Il convegno di Napoli sull’attualità dell’Umanesimo

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Nobis hunc conventum instruentibus illud propositum est, ut quam vitalis etiamnunc sit humanitatis ac bonarum litterarum vis appareat et exstet; quantum ipsa valeat ad iuvenum animos informandos; ad regendam administrandamque rempublicam; ad naturales quaestiones ratione quadam tractandas et via; denique ad humanum genus humanius faciendum. Est enim nobis illud persuasum, nihil sine vero animi cultu humanitateque bene atque honeste geri posse…
Un salto indietro di cinque secoli? O almeno di due? No, si tratta del recentissimo Omnium gentium conventus de humanitate nostra aetate restituenda / convegno internazionale sull’attualità dell’umanesimo, intitolato più brevemente “Humanitas” e tenuto a Napoli, Pompei e Torre del Greco dal 15 al 22 luglio a cura dell’accademia Vivarium novum in collaborazione con la fondazione Mnemosyne e l’associazione Philia, sotto il patrocinio dell’Istituto italiano per gli studi filosofici.
Ambizione esagerata, quella che emerge dalle parole sopra riportate (dal programma del convegno)? Potrebbero invero significare più o meno tutto lo scibile, anzi la vita dell’uomo. Ma ancor più frappant è il contrasto provocatorio con tutta una mentalità, che non possiamo dire ideologia ma nasce dalla comune deriva nichilistica delle moderne ideologie, tra esse nemiche e opposte in tutto, coincidenti tuttavia e nell’esito totalitario e nello sprezzante rifiuto dell’armonia di natura e ragione, essere e dovere, res e verba, sulla quale si fondano il bonum, il iustum e l’honestum della tradizione classica, cristiana e umanistica. L’opporsi a quella mentalità, senza timore di scandalizzare l’ipocrisia buonista dominante nelle istituzioni, è il motivo di questo singolarissimo convegno. Per un piccolo esempio del coraggio di cui non s’è fatto risparmio, si veda il cenno del tutto esplicito sulla connivenza tra autorità napoletane e camorristi, che a pagina 27 del programma conclude una breve storia della città.
Insomma quanto di più opposto si potrebbe immaginare, all’atmosfera rarefatta, come toto caelo distante dal mondo reale, che è propria di quasi tutti i congressi eruditi. È chiaro che s’intendeva di smentire carrément il mito formalistico dell’avalutatività della scienza.

Aderirono e concorsero a ciò molti illustri studiosi, dei cui contributi cercherò adesso di dare un cenno. Ma sopra tutti la vera anima della manifestazione porta il nome di LUIGI MIRAGLIA: ideatore del tutto, organizzatore sino ai più minuti particolari, traduttore persin troppo infaticabile come sotto si dirà, accompagnatore e guida turistica dei convenuti in tutti i loro spostamenti, capo di un gruppo di giovani aiutanti di buona volontà, e, se ce n’era bisogno, facchino delle casse di acqua minerale destinate ai rinfreschi. A lui in massima parte si deve se due personaggi come Michael von Albrecht e Wilfried Stroh hanno spontaneamente dichiarato, alla fine, di non aver mai partecipato a un convegno migliore di questo.

Il Miraglia dirige la predetta accademia di Vivarium novum, che sinora era conosciuta specialmente ai professori di lettere per avere l’esclusiva della diffusione, nel nostro paese, della Lingua Latina per se illustrata del danese Hans Ørberg, corso basato sul metodo naturale. Primo scandalo dunque, e preesistente al convegno: infrangere la poco felice tradizione di pedanteria ginnasiale nata dalla passiva ricezione della grammatica di Port Royal; insegnare il latino dal vivo come il russo o l’inglese. Ma si può? Non era una lingua morta? E tanto nell’ottica razionalistica di un D’Alembert quanto in quella, opposta, dello storicismo romantico del Volksgeist. Sull’argomento torneremo più avanti. In ogni modo ecco già un punto di forte rottura. A gran fatica, suscitando dura opposizione nella pigrizia dei professori post-68 (richiede infatti un serio impegno del docente), il corso dell’Ørberg si apriva tuttavia una strada nelle scuole italiane, senza la minima spinta di istituzioni ufficiali nè di grandi case editrici scolastiche.

L’altro e più generale scandalo, di cui il primo è solo un aspetto, cioè il voler tornare alle radici del pensiero occidentale per rimediare allo smarrimento della nostra società, è esploso, si può dire, con il convegno stesso, perchè dell’opera di educazione e ricerca già da anni condotta dal Vivarium novum e promossa dalla fondazione Mnemosyne ben pochi sinora ne sapevano qualcosa. Nos credimus (ha detto Miraglia, e si confronti il proemio del programma) rationem et orationem esse servandam. Il latino vivo (e dunque assunto come lingua comune anche di questo convegno) era solo un aspetto, dicevo, di un contatto vitale e fecondo con l’Antico, a cui s’è cercato di condurre giovani d’ogni paese, anche gratuitamente se poveri, nell’intento non di prescrivere una norma da osservare, ciò che fa il classicismo pedantesco, ma di piantare semi e germi da svilupparsi nel nostro futuro, come disse il grande filologo Zielinski; donde il nome e lo spirito di quel primo Vivarium del dottissimo Cassiodoro, e anche di questo secondo. E in verità se gli “studia humanitatis” (anzi se tutti gli studi) non dovessero servire a renderci migliori, come credeva fermamente Erasmo con tutti gli umanisti, allora sì che è giustificata davvero quell’avversione che vulgo li colpisce come qualcosa di sommamente inutile. Il latino quale sinonimo di ablativo assoluto più periodo ipotetico (così ce lo presenta la scuola italiana) e più in generale, ripeto, la stessa scuola come rituale burocratico di programmi, interrogazioni, graduatorie, supplenze, solo a un pazzo può sembrar che meriti la spesa di miliardi del bilancio d’una comunità.

Dico questo anche perchè questo convegno napoletano, durato una settimana con l’intervento dei più illustri studiosi mondiali e di trecento uditori che pagavano cifre assai modiche per vitto, alloggio e partecipazione, al contribuente non è costato un soldo, a differenza di innumerevoli congressi, seminari e incontri di studio che prosperano nei floridi campi dell’ufficialità burocratica.
La macchina organizzativa non era semplice, anzi forse troppo varia e anche dispersiva, ma tutto sommato ha funzionato bene, il risultato è cospicuo e coerente. Ad esso hanno contribuito in maniera essenziale quelle attività e circostanze che nelle manifestazioni del genere si considerano di contorno, come un’appendice più o meno facoltativa. Prima di tutto il fatto che i lavori si siano svolti in molte sedi, e i conseguenti trasferimenti dall’una all’altra a piedi o in autopullman, da una parte rendevano più vario e interessante il lavoro da svolgersi, dall’altra facevano conoscere ai partecipanti l’ambiente di questa grande città per cui avevano da passare, e non solo della città come ora diremo. Alloggio della maggior parte dei convenuti era il convitto nazionale Vittorio Emanuele II, dove ci si ritrovava tutti per la cena; degli altri, vari conventi e alberghi. La seduta inaugurale si tenne nel palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto italiano per gli studi filosofici; le altre nel palazzo reale, nel convento di S. Lorenzo maggiore, sovrastante i più antichi ruderi della città greca e romana, e in quello di S. Chiara, famoso per il chiostro maiolicato, nell’orto botanico, nell’osservatorio astronomico di Capodimonte, nel museo archeologico nazionale, nella sala Vincenzo Gemito, nel conservatorio musicale di S. Pietro a Majella; a Pompei nel teatro dell’istituto Bartolo Longo; a Torre del Greco sul colle S. Alfonso, con veduta meravigliosa del golfo. In tutte queste visite facevano da guida i preposti dei vari istituti, sempre assistiti da Luigi Miraglia che traduceva diligentemente in latino, e negli spostamenti lo stesso Luigi sempre parlando in latino. Ottimo il vitto, comprese due merende a metà della mattina e del pomeriggio (non il solito triste coffee-break) e addirittura sontuosi due ricevimenti di saluto il primo e l’ultimo giorno, l’uno nel ridotto del teatro S. Carlo e l’altro sul colle S. Alfonso.

Vi furono inoltre la visita dell’orto botanico, degli scavi di S. Lorenzo, della galleria nazionale di Capodimonte, degli scavi di Pompei, la messa latina di domenica 22 nella chiesa di S. Francesco di Paola, e cinque spettacoli: due di musica da camera, uno di canzoni napoletane, la recita del Miles gloriosus (ovviamente in latino, ma in un testo ridotto) nell’odeon degli scavi di Pompei e una messa in scena della Stultitiae laus” di Erasmo nel testo originale, con due attori di prodigiosa memoria. Ma la recita più bella la fece lo stesso Miraglia sulle rovine di Pompei, leggendo semplicemente le due lettere in cui Plinio racconta a Tacito l’eruzione del Vesuvio e la morte dello zio, ma con tanta vivacità di espressione da far rivivere magnificamente la scena, e con accenti eroicomici nella seconda lettera (VI, 20) là dove l’autore descrive il suo comportamento in tono inopportunamente epico. Splendido esempio di come la scuola può e dovrebbe render vivi i testi, senza timore di trasformare, se è il caso, in una sceneggiata napoletana pagine che lette con sussiego pedantesco ci riempiono di sbadigli; e per evitare il rischio, com’è noto, a scuola non si legge più niente.

Veniamo ai relatori, che si possono raggruppare in quattro categorie assai diverse. Prima di tutto, fondamento della manifestazione e garanzia della sua serietà, i cattedratici famosi che alla più solida esperienza filologica uniscono la più disinvolta eloquenza latina: Michael von Albrecht (Heidelberg), Fidel Rädle (Gottinga), Andreas Fritsch (Berlino, Univ. libera), Kurt Smolak (Vienna), Wilfried Stroh (Monaco), Kajetan Gantàr (Lubiana), Terence Tunberg (Kentucky). Non è un caso, ma così hanno voluto le vicende degli studia humanitatis nel Novecento, che quasi tutti siano di patria o formazione tedesca, eccetto l’ultimo che è americano. Di queste relazioni, tutte importanti, ricordo specialmente per la stretta connessione col tema generale la prima delle due tenute da Stroh, intorno all’origine delle parole humanitas (antica) coi due significati diversi ma non discordi di παιδεία e di φιλανθρωπία, e humanismus (moderna) della quale si è abusato, spinti dalle varie ideologie, per nozioni anche molto contrastanti (propone perciò di abbandonare la seconda come fonte di inutili equivoci); e quella del Gantàr sopra un tema in apparenza modestamente locale, la vita di Giacomo Ukmar, dotto prete sloveno di Trieste (1878-1971), perseguitato da tre regimi per aver predicato, contro gli opposti nazionalismi, la concordia tra italiani e slavi, coniugando perfettamente i due significati del termine humanitas; tenuto in grande stima dal papa Giovanni XXIII che trascrisse alcune sue frasi nell’enciclica Pacem in terris.

Il secondo gruppo, non numeroso ma nettamente individuato e importante per l’intento di valorizzare il latino vivo, è costituito da esponenti dei circoli “Latine loquentium”, non dediti alla professione filologica ma dotati di un’invidiabile padronanza della lingua: l’ingegnere Claudio Piga e l’architetto Giancarlo Rossi, ai quali si può aggiungere, tra gli altri che trattarono di argomenti scientifici connessi con l'”humanitas”, l’ingegnere aerospaziale Filippo Graziani, ottimo conoscitore di Cicerone.

In terzo luogo, ma è stata forse la più gradita sorpresa del convegno, una folta schiera di studiosi giovani che danno la più consolante speranza di una rinascita degli studi umanistici, comunicando agli uditori l’entusiasmo per queste ricerche insieme col gusto di una latinità semplice, brillante, vivissima: l’esatto contrario della pedanteria inerte che contraddistingue quasi tutte le cattedre stancamente sopravviventi in Italia, si direbbe a condizione di non dar fastidio con qualche segno di vita. Nomino, chiedendo scusa per le omissioni (dovute anche al fatto che molte relazioni erano tenute in sessioni contemporanee) Vladislav Dolidon, che parlò dell’astronomia nei poeti antichi, applauditissimo anche per la vivacità dell'”actio”; David Morgan, Dominique Viain, Rüdiger Niehl, Nancy Llewellyn, Milena Minkova, i giuristi Zoltán Rihmer e Mauro Agosto; e, di pronuncia non tanto chiara ma di lingua e stile molto corretti, Tamás Nótári, Laurent Grailet, Aleksej Ljubžin. Con particolar piacere ricordo Diego Toigo, non latinista di professione ma docente di storia della musica all’università di Padova: prima del suo intervento mi confessava di essere preoccupatissimo, ma poi suscitò l’interesse e l’ammirazione di tutti descrivendo in latino semplice e corretto e con pronuncia chiarissima, servendosi anche d’immagini e audizioni musicali, le scuole medievali di canto corale e in particolare il bellissimo e commovente rituale patavino dell’Annunciazione, testimoniato da un manoscritto di quella biblioteca capitolare.

Del quarto gruppo di relatori (“displicet iste locus”, ma dirò ciò che sento) questo convegno già anche troppo nutrito poteva fare a meno tranquillamente: si tratta infatti di professori considerati bensì specialisti di epoche e scrittori anche strettamente connessi col tema generale, ma tanto ignari di latino che leggendo ognuno la sua relazione, tradotta per conto loro da Miraglia o dai suoi collaboratori, sembravano non capir niente di ciò che essi stessi avevano scritto, interponendo le pause nei luoghi sbagliati e strapazzando incredibilmente gli accenti. Qualche accento (molti di meno) lo sbagliarono anche i pur bravi attori che recitavano Plauto ed Erasmo: ma qui, ahimè, si tratta di professori universitari! Più correttamente leggevano altri relatori, ma poi la loro incapacità di rispondere in latino alle più semplici domande degli ascoltatori rivelava che quello stile rotondo e sonante non era farina del loro sacco. Insomma relazioni come queste erano forse a posto nei normali periodici eruditi o in altri convegni, non in questo che si proponeva di restituire il senso della connessione umanistica tra la vita e l’eloquenza.

Il discorso inaugurale fu tenuto dal prof. von Albrecht. Ci sono due lingue morte (disse) dalle quali urge liberarsi: no, non sono mica il greco e il latino, che al contrario ci fanno attingere le fonti più vive della nostra civiltà. Sono le due lingue morte e mortifere che hanno avvelenato la comunicazione umana nel Novecento: quella della propaganda politica (prevalente, aggiungerei io, nella prima metà del secolo, con la triste e senescente appendice del ’68) e quella della pubblicità commerciale (dominante nella seconda). E lo stesso Albrecht, nel discorso conclusivo pure affidatogli, ha ripetuto che gli uomini del nostro disgraziato secolo “artem rhetoricam non amplius didicerant, ideoque demagogorum fallaciam perspicere non valebant”. Quest’accoppiarsi della lusinga pseudo-sociale con quella consumistica ci ricorda il profetico Huxley del “Mondo nuovo”: ciò che al tempo di questo romanzo (1932) poteva apparire eresia, il vedere due tendenze così opposte come concorrenti nella diseducazione dell’uomo, oggi è troppo manifesto, e troppo urgente il bisogno di resistere alla disumanizzazione promossa dal totalitarismo tecnocratico come dal totalitarismo politico.

A questo serviva il convegno, a questo devono servire i due progetti della fondazione “Mnemosyne” esposti in conclusione dallo stesso Miraglia: un “Centro internazionale di studi classici della Magna Grecia” (scuola-convitto universitaria e post-universitaria) e una “Scuola europea d’alta formazione umanistica” (per studenti dai 14 ai 19 anni) da aprirsi in un luogo situato fra le antiche città di “Paestum” e “Velia” per accogliervi e ospitarvi i migliori giovani di tutt’Europa, dell’area del Mediterraneo e altre parti del mondo. Ed è per questo di ottimo auspicio che a Napoli vi fossero tanti giovani (e anche parecchie belle ragazze!). A quanto pare non è la solita “in cute curanda plus aequo operata iuventus”.
Da un altro partecipante al convegno ho sentito quest’obiezione (forse è l’unica seria che si potrebbe muovere a quelle ammirabili iniziative, ma non è di poco peso!): codesta specie di Platonopoli tanto vagheggiata dal Miraglia, e già sperimentata nel suo “Vivarium novum”, che cos’è se non una nuova utopia? proprio quando “liberare il mondo dalle utopie”, come quelle che hanno generato il totalitarismo, sembra essere il compito delle generazioni future, secondo il pensiero di Nicola Berdiaev messo da Huxley in epigrafe al romanzo sopra ricordato. Ora il problema, che merita senz’altro di essere discusso in modo approfondito, già in questo stesso convegno è stato affrontato dalla relazione di D. Morgan, con riferimento a un’altra famosa “Utopia” umanistica, quella proprio così intitolata da Tomaso Moro: all’accusa di totalitarismo rispondendo che (cito dal sunto riportato nel programma) “latere non potest Mori mentem longe aliam fuisse, illumque verae humanitatis statorem ac restitutorem, iocis miscendo graviora, viam quandam praemonstrasse – ut olim Plato – quo efficacius philosophus, dum aliquod pulchre apteque ordinatae civitatis exemplum a se animo conceptum contempletur, animum proprium ad virtutem conformare queat”. Per Platone infatti, secondo un suo grande interprete moderno, lo stato, com’egli ‘lo descrive, non è che un pretesto, lo stato offre il punto di partenza per lo sviluppo del problema dell’anima’ (J. Patočka, “Platone e l’Europa”, tr.it., II ed., Milano 1998, p. 141); mentre nel totalitarismo avviene esattamente il contrario: il pretesto è l’uomo.