fiumi della padania

L’antichissima rete padana di navigazione fluviale

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Pubblichiamo per intero un articolo esaustivo di Antonio Antonioni sull’ambiente fluviale padano, ritenendolo di pubblico dibattito per una più larga presa di posizione da parte delle autorità che danno l’impressione di disinteressarsi. Antonio Antonioni è docente di materie letterarie al Liceo classico. Collabora con la rivista AIDANEWS dal 1994/95 e dall’autunno dell’anno scorso è entrato a far parte dela comitato di redazione. 

  1. L’abbandono dell’ambiente fluviale

Però, cal canal lì! Se mai i al stropa, agh salta fora n’avtostrada coi fiocch!

Trent’anni fa, e forse più, viaggiavo sul corrierino della S.I.A.M.I.C. che da Ostellato, in coincidenza col treno della Padana, portava a Comacchio per la vecchia e bellissima strada provinciale, quando non era ancora aperta la superstrada Ferrara-Mare. Mi rimasero impresse quelle parole, dette da un ignoto compagno di viaggio nel vedere, forse per la prima volta, il largo canale che fiancheggia la strada: coperto dall’argine per chi viaggia in macchina, ma visibile dall’alto della corriera.

     Il nostro discorso può cominciar di qui, cioè dalla fine. Dalla fine dell’ambiente fluviale come luogo dell’attività umana. Dopo che per millenni, nella pianura padana, la vita della natura, e nella natura quella dell’uomo, si era diramata per tutto il territorio seguendo le vie d’acqua, ecco che per l’uomo d’oggi un fiume o un canale è diventato, quando non un ostacolo o un pericolo, certamente uno spazio vuoto: un nulla da riempire, se si può, con qualcosa di utile, come strade, depositi, capannoni, parcheggi, discariche di rifiuti.

     Ma un tal destino di nullità era ancor più amaro per il corso d’acqua di cui si parlava, cioè il canale navigabile Migliarino – Porto Garibaldi: che era nuovo di zecca!

     Si trattava bensì di un’opera del regime fascista; ma interrotta per la guerra, ripresa dopo, continuata senza troppa fretta e inaugurata trionfalmente nel 1968, come se niente fosse: voglio dire, come se negli oltre trent’anni dall’inizio dei lavori non fosse successa questa bazzecola, che la navigazione fluviale era stata stroncata dalla concorrenza dei camion (favoriti, tra l’altro, da investimenti ben più massicci e sistematici in opere stradali, com’è noto). Pochissimi anni dopo quella solenne inaugurazione, il commento dell’anonimo passeggero dell’autobus, pur ignorando gli infiniti discorsi dei politici sul rilancio delle idrovie (anzi proprio per questo), ci riporta bruscamente alla realtà così radicalmente mutata.

     La realtà era non solo il flusso dei traffici commerciali, ma in generale tutto il mondo della vita dell’uomo, che decisamente ripudiava quella condizione anfibia tra terre pianeggianti e acque, la quale per millenni aveva contraddistinto la pianura padano-veneta rispetto all’ambiente collinare e a quello montano. Scrive il Vallerani: ” La rapida estinzione, negli anni tumultuosi del ‘miracolo’ economico, (…) della navigazione interna, non ha significato unicamente una trasformazione delle modalità di trasporto, consacrando il ruolo degli autocarri, ma soprattutto la fine di una secolare attività strettamente connessa al carattere anfibio della pianura veneta. Con il cabotaggio fluviale si è estinta la cantieristica minore, l’attività molitoria, la fluitazione dei legnami nei medi corsi di Adige, Brenta e Piave, ma anche la pulviscolare diffusione di abitudine quotidiane che avvicinavano le popolazioni rivierasche ai loro fiumi, in base a svariate esigenze come la pesca, il risciacquo dei panni, lo sfalcio del canneto per la confezione di ceste, i giochi dei ragazzi”.

     Per molte di queste abitudini la piccola barca (sul Po, il battello) era una necessità quotidiana: in molte famiglie rivierasche era normale che se ne costruisse uno all’anno e anche di più, in casa, e v’erano inoltre gli squeri artigianali che lavoravano per il pubblico. Sulle acque s’intrecciava, anche e soprattutto grazie a queste piccole imbarcazioni, una fitta rete di rapporti fra i paesi delle sponde opposte, spesso molto più legati tra loro e interdipendenti, che ciascuno di essi col rispettivo retroterra, non toccato direttamente dalla vita fluviale. V’erano poi i servizi pubblici di traghetto, fatti sia con un semplice battello a remi (in ferrarese passet) sia con due scafi più grandi uniti da un ponte (pass dopi port), che oscillavano come un pendolo su una lunga corda, passando da una riva all’altra per effetto della corrente e di un timone; e infine i regolari trasporti di merci, per mezzo di barche anche grosse (burchi, rascone, comaccine, gabarre, ecc.). L’acqua non divideva affatto ma univa, essendo la più comoda ed economica via di comunicazione.

      Ancora tra gli ultimi decenni dell’800 e i primi del 900 nella Grande bonificazione ferrarese, poichè il terreno ancora malfermo non permetteva di tracciare strade, riuscì perfettamente naturale di usare per i trasporti i canali collettori attrezzati con piccole conche di navigazione, per barche sino a 50 tonnellate di portata. Restavano così in certo modo anfibie anche le terre bonificate: poteva talora una vela alzarsi all’orizzonte e in lento moto animare l’immobilità della vasta pianura. Erano i prodotti di quelle terre che viaggiavano in barca.

      Questi corsi d’acqua formavano dunque una piccola ma efficiente rete di comunicazione; più in grande si può dire che in tutta la pianura padano-veneta funzionasse una rete di vie fluviali, imperniata sui due assi fondamentali della laguna veneta e del Po. La direzione prevalente ovest-est, segnata dal Po e da altre linee parallele correnti verso la laguna e  l’Adriatico (Canal Bianco, Adige ecc.), s’incontrava nei pressi del mare appunto con la laguna e con le navigazioni che la prolungavano a sud e a nord (Canale di Valle, Litoranea veneta): talvolta i più grandi natanti fluviali (e normalmente quelli lagunari) viaggiavano anche in mare, quando la stagione lo permetteva; reciprocamente, barche marittime come trabaccoli, bragozzi, battane non avevano difficoltà ad addentrarsi anche di molto su per il Po e i fiumi veneti.

     All’interno v’era una serie di maglie trasversali (da sud a nord ecc.), più deboli, servendo solo o da raccordo tra le linee principali, o per raggiungere con piccole barche qualche centro importante ma lontano dai fiumi. Sono state le prime a essere abbandonate, in qualche caso sin dall’Ottocento, ma in modo vistoso tra le due guerre mondiali. La loro scomparsa ha fatto cessare l’effetto della rete.

     Negli stessi anni tuttavia, in piena controtendenza, si arrivò ancora all’apertura di linee trasversali nuove, come il canale Boicelli con la biconca di Pontelagoscuro (1932), che dopo secoli rimetteva Ferrara in comunicazione col Po Grande; ma si mirava a una navigazione d’altre dimensioni, da farsi con barche sino a 600 tonnellate di portata, di cui sino allora in Italia v’erano ben pochi esemplari. Il Boicelli era stato progettato appunto come uno dei tre assi paralleli della nuova zona industriale ferrarese: stradale, ferroviario e idroviario. Uno dei più importanti porti d’armamento dei burchi, quello di Battaglia, arrivò a contarne ben 70, ma di portata ben difficilmente maggiore di 200 tonnellate a causa delle condizioni idrauliche di entrambi i canali del luogo, Battaglia e Vigenzone, quantunque dal 1923 fosse in funzione (inaugurata dal duce in persona) la conca che per la prima volta li metteva in comunicazione diretta evitando il trasbordo, costruita per natanti sino a 300 tonnellate. Continuava insomma, qua e là anche con qualche progresso sia nelle opere idrauliche sia nel rendimento del traffico, la navigazione delle barche di legno tradizionali, sebbene parecchie linee minori fossero in fase di progressivo abbandono. “(…) quando le linee navigabili fluviali – notava nel 1949 l’ingegner Avventi – costituivano il principale mezzo (…) di trasporto, venivano utilizzati a tale scopo anche corsi d’acqua secondari con portate e fondali minimi nei quali oggi la navigazione non può esercitarsi che con piccoli natanti per lo più adibiti alla pesca senza nessuna importanza agli effetti dei trasporti. Molti di tali canali secondari non figurano più fra quelli classificati fra le opere di navigazione, altri pur figurandovi, hanno nello stato attuale perduto ogni pratica possibilità di utilizzazione a scopo navigabile”.

       Ma  dopo la seconda guerra mondiale, al massimo dieci o quindici anni dopo, il sistema crollò definitivamente: quando in ritardo si apriva il citato canale Migliarino – Porto Garibaldi, l’antica rete s’era ormai atrofizzata riducendosi ai due assi della laguna e del Po, quest’ultimo percorso da pochi natanti di ferro sempre più grandi, unici in grado di opporsi alla schiacciante concorrenza dei camion, che ormai stavano eclissando anche il trasporto via treno. Altre maglie trasversali della rete fluviale divennero materialmente impraticabili anche alle più piccole barchette per varie ragioni, come la costruzione di ponti bassi o il disuso degli impianti di manovra di quelli mobili (esempio: il Canale di Loreo nel tratto da questa città all’Adige). Possiamo citarne almeno due che scomparvero persino fisicamente, col pretesto di problemi idraulici ma in realtà a causa della diffusa avversione per le acque interne, pregiudizialmente viste come superate, improduttive, ostili: e cioè la storica e bellissima Fossa Polesella, unica via trasversale tra Po e Canal Bianco a monte di Volta Grimana, e il modesto ma utile canale Marozzo, che metteva in comunicazione Comacchio con Codigoro. Negli stessi anni si compivano le ultime bonifiche vallive (Valle Falce nel 1970) e si finiva di chiudere oltre metà dei canali urbani di Comacchio, stravolgendo definitivamente quello che era stato un paesaggio d’acque. Nel 1962 si erano scaricate le ultime merci nella piarda di Codigoro, un tempo fervente di traffico anche marittimo; quattro anni dopo passava l’ultimo burchio per la conca di Battaglia. A uno a uno sparivano intanto i traghetti del Po: dopo i passetti di Stienta, Occhiobello, Francolino, Crespino e quelli del delta, si fermavano per sempre i porti che traghettavano i veicoli, che nel basso Po erano  ben cinque, tra Calto e Felonica, tra le due Guarde, tra Crespino e Cologna, tra Villanova Marchesana e Berra, tra Papozze e Serravalle; restando in funzione solo il penultimo (esercitato dagli anni 70 con un pontone di ferro a motore), favorito dalla posizione centrale tra il ponte di Polesella e quello di Bottrighe, distanti ben 40 km. Se non fosse per questo, riesce ormai più naturale, per l’uomo moderno che ha voltato le spalle alle acque, allungare il percorso spendendo di più in benzina, che pagare un pedaggio, rispettare un orario e andarsi a fidare del Po.

     La rivoluzione automobilistica ha insomma costituito la seconda fase di un grande processo iniziato con le sistematiche costruzioni ferroviarie dell’Ottocento, che ha allontanato le comunità dalle rive, unite da pochi grandi ponti fissi, inducendole a concentrarsi intorno ai nuovi assi di comunicazione terrestre. Ma quel tanto di vita che era rimasto sulle vie d’acqua nella prima fase, quasi utile sussidio della pur dominante strada ferrata, il nuovo dominatore l’ha spazzato via senza complimenti.

 

 Due casi “estensi”: i navigli di Modena e Rovigo

S’è accennato sopra, parlando delle maglie trasversali dell’antica rete di navigazione, a quei modesti canali, aperti per lo più nel medio evo ma anche più tardi, spesso sfruttando tratti di alvei fluviali, per collegare alle linee principali dei centri di una certa importanza, come Bologna, Faenza, Modena, Rovigo, per mezzo di barche dette navi ma in genere di portata assai piccola; oltre che, eventualmente, per muovere i molini e per altri usi idraulici.

     Consideriamo in particolare gli ultimi due di questi navigli cittadini, i quali servivano città che si trovarono sotto dominio estense: Modena, com’è noto, per molti secoli, Rovigo sino al 1484.

     Ancora nel Settecento, com’è noto, Carlo Goldoni potè viaggiare in barca da Venezia a Modena. Il Naviglio, percorso almeno dal secolo XII, già tributario della Secchia, fu immesso nel Panaro a Bomporto nel 1347. A sud del Finale, dove il Panaro si divideva in due rami, detti Cavamento e Lunga, la navigazione imboccava quest’ultimo, che, attraversato il centro di quella cittadina, con giro tortuoso prima a nord e poi a est si riuniva all’altro a Santa Bianca. Ma nel 1889 il fiume restò inalveato nel solo Cavamento, rimanendo della Lunga soppresso il tratto superiore e adibito l’alveo inferiore a emissario delle acque alte modenesi, col nome di Canale Diversivo. Da allora perciò le poche navi rimaste seguirono il percorso più breve. La loro portata massima era di 40 tonnellate.

     Tutto il sistema Naviglio-Panaro, trasversale dell’asse padano, era denominato Canale di Modena e servì per portare in città i marmi del duomo, quelli del palazzo ducale, persino (nel 1858) il materiale della strada ferrata, destinata a soppiantare quella già allora troppo piccola via d’acqua. Terminava a fondo chiuso nell’odierno corso Vittorio Emanuele II, dov’era un porto delle navi arredato nel Settecento con marmi e statue, interrato nel secolo successivo dopo che Francesco IV aveva scavato una darsena nuova fuori di porta Castello: era lunga 214 metri e larga 33, contornata da banchine. Fu questo il capolinea dell’ultima stentata stagione della navigazione modenese, sino all’ultimo carico sbarcato “in un giorno non ancora precisato degli anni venti” del secolo XX (Spaggiari) o “verso il 1923” (Pozzi) o “tra il 1917 e il 1923” (Pellegrini). La darsena fu interrata nel 1935; ridotte a fogna le acque già solcate dal sontuoso bucintoro del duca; tolte le porte dei sostegni a conca che servivano alla navigazione, di cui è ben conservato quello settecentesco di Bomporto mentre fu stoltamente demolito quello di Bastiglia, fatto costruire da Nicolò III d’Este nel 1432 su disegno di Filippo degli Organi, anteriore dunque alle opere simili di Leonardo da Vinci. Nello stesso Panaro, poi, la navigazione è del tutto impedita da briglie costruite successivamente, restando possibile solo a valle di Bondeno; il Diversivo infine, da oltre cent’anni come canale consorziale non più destinato alla navigazione, è per giunta sbarrato da una chiavica all’incile di S. Bianca.

    In questo caso dunque la via d’acqua, pur non venendo cancellata fisicamente (se non nel brevissimo tratto suburbano) è affatto sparita dalla Lebenswelt, dall’ambiente dell’uomo: si pensi a paesi come Bomporto o Finale, dov’è scomparso ogni ricordo della navigazione di cui vivevano. Identica è stata la sorte (a circa vent’anni di distanza) di un altro naviglio cittadino già tributario del Po, quello di Bologna.

     Quanto al Naviglio Adigetto, morfologicamente è una variante della serie di linee principali in direzione della latitudine: pare infatti che si tratti del corso più antico dell’Adige, per quanto la tradizione storica lo dica derivato da una rotta d’Adige avvenuta a Badia nel X secolo. La sua passata importanza è testimoniata dai centri abitati fioriti lungo le sue rive: Badia, Salvaterra, Lendinara, Villanova del Ghebbo, Costa, Rovigo, Villadose e altri. Si riuniva con l’Adige sopra Cavarzere, alla bocca di Lezze (toponimo che significa semplicemente Adige); ma nel 1751, chiuso l’ultimo breve tronco dalle Botti Barbarighe a Lezze, fu deviato a sud-est nell’alveo rettilineo dello scolo Loredan, sfociante in Canal Bianco alla punta Stramazzo, a valle di Adria, raggiungendo così la lunghezza totale di 80 chilometri.

     Il primo tratto, da Badia a Villanova, costituiva insieme col canale Scortico, da esso derivato in destra mediante il sostegno detto il Ghebbo, e volto decisamente a mezzogiorno, una di quelle che abbiamo denominate maglie trasversali della rete fluviale padana, conducente dall’Adige al Canal Bianco, dove sbocca, bagnata Fratta, per mezzo del sostegno a conca del Pizzon. Tutta questa linea alto Adigetto – Scortico permetteva una navigazione modestissima, di barche sino a 15 tonnellate. Ma discendere l’Adigetto oltre Villanova, scematane assai la portata d’acqua per la derivazione dello Scortico, già ai primi del 900 era stimato quasi impossibile per insufficienza di sezione e difetto di manutenzione. Si poteva riprendere a navigare da Rovigo in giù, e nell’ultimo tratto anche con barche da 70 tonnellate.

     Al paesaggio urbano di Badia, Lendinara, Rovigo e agli abitati minori l’Adigetto e lo Scortico davano quel carattere tipicamente anfibio, di centri nati sull’acqua e in funzione di essa, che ancora posseggono Treviso, Adria o Portogruaro. Ma mentre a Badia e a Lendinara le sponde sono state squallidamente cementificate per risparmiare la manutenzione (come nel ben più grande Burana-Volano a Ferrara) a Rovigo si è arrivati a liberare la città dalla non più gradita presenza delle acque. Nel 1938 si diede il via a un progetto urbanistico di grandeur fascista, compiuto nel dopoguerra, che imitando ciò che era avvenuto a Milano, dove si era eliminata la cerchia interna dei Navigli, e precorrendo ciò che avvenne a Padova, sempre in base a direttive urbanistiche di totale subordinazione alle esigenze del traffico automobilistico, al posto del modesto Adigetto prevedeva un corso del Littorio (poi corso del Popolo) non più da città di campagna, diventata capoluogo come per caso, ma da vera città.

     Rimosso dal centro, il canale nondimeno sopravviveva, deviato in periferia ma senza compromettere la sua funzione di navigabilità (ormai più che altro teorica) con ponti alti per far passare le barche, marciapiedi sotto i ponti per i cavalli che le tiravano, e una piccola darsena vicino alla stazione. Ma negli anni 80 è sparito anche quel povero canale, che non dava fastidio a nessuno; rimane solo il tratto a valle dei Cappuccini. Quest’operazione urbanistica di terrificante insulsaggine, in cui (a differenza della precedente) non si può ravvisare altra logica che quella della più volte accennata idrofobia, qui allo stato puro, non è servita ad altro che a creare al posto del naviglio un infelice giardinetto stretto e lungo. Per riempire questa sconsolante nullità, oltre ad alcuni penosi monumentini, ci hanno messo persino un percorso d’agilità che nessuno si sognerà mai di percorrere, a così stretto contatto con la movimentata strada di circonvallazione. Dalla bella pista ciclabile della sponda destra si può fare un istruttivo confronto tra l’ampio orizzonte che si gode lungo il superstite Adigetto, grazie alla netta separazione creata dal corso d’acqua rispetto alla circonvallazione che corre sull’altra sponda, e la miseria di quel giardinetto spartitraffico, che al contrario non rappresenta altro che un trascurabile accessorio di quella strada.

     Se mi si concede una piccola analisi retorica, le due decisioni (1. deviazione del canale, dal 1938; 2. copertura di esso, dal 1980) concludono una suasoria, vertente più o meno intorno allo stesso oggetto (pro o contra il canale); nella quale però, dalla parte contra (di quella pro non essendovi notizia) sono state usate argomentazioni assai diverse, anche in seguito al cambiamento d’idee avvenuto in quei quarant’anni. Fondamentale nella prima fase è il duplice locus communis, molto sfruttato in epoca fascista, della lode del nuovo in quanto vivo, fresco, potente (la citata grandeur urbanistico-automobilistica) e del biasimo del vecchio in quanto povero, angusto, sporco, decadente, senza la minima preoccupazione di un eventuale rispetto dovuto all’antichità: il vecchio ben poteva infatti estendersi, come abbiamo visto, dall’altro ieri sino a tempi precedenti Leonardo da Vinci, e volendo anche molto più indietro. Nella seconda fase questi argomenti, ormai screditati se non altro dai risultati della loro massiccia applicazione, sono lasciati pudicamente in secondo piano; con minor disinvoltura e maggiore ipocrisia si ricorre persino a colori vagamente ecologici (la città ha bisogno d’un giardino…!). Vittima indifesa è questa volta un’opera nè tanto recente da poter godere dei favori riservati al nuovo, nè tanto veneranda da meritare la protezione che nel frattempo era stata concessa all’antico: lo stesso frutto, cioè, della fase precedente! Opera che invece, a mio giudizio, meritava d’esser conservata come ormai rara testimonianza della navigazione di scala minore, travolta già dalla prima ondata di concorrenza, quella ferroviaria; mentre la navigazione di portata media, quella (per intenderci) di Codigoro e di Battaglia, riusciva per allora a garantirsi una qualche convivenza col treno, e veniva spenta più tardi (come s’è detto) solo dalla seconda ondata, cioè dalla concorrenza stradale.

 

 Puo rinascere la vita sulle acque?

Ma queste cose – si dirà –  questi  poveri ricordi d’un tempo ormai perduto, perchè poi dovremmo salvarli? Era quello un  tempo di miseria e di fatica: se l’uomo ha voltato le spalle alle acque, non ha seguito altro che il suo vantaggio, la nostalgia è fuori posto.

     In verità non solo l’ambiente acqueo, quel particolare mondo anfibio proprio della pianura padano-veneta e d’altri luoghi, ma più in generale ogni legame sia con l’ambiente naturale, sia con le tradizioni e consuetudini umane, dalla modernità è stato ripudiato, per esaltare l’autonomia della ragione individuale che domina e trasforma il mondo, per la quale ogni vincolo dev’essere o spezzato da un impeto di liberazione, o sciolto dall’azione graduale e ineluttabile del progresso, che compensa rinunce e rotture anche dolorose con benefici infinitamente maggiori.

     Ma se per certi rispetti questo mito positivistico continua a governare l’attività dell’uomo (non vige forse ancora, nell’economia politica, l’imperativo della crescita continua di produzione e consumi?) d’altra parte s’è affermato negli ultimi decenni, com’è noto a tutti, un larghissimo movimento di riscoperta e rivalutazione dell’ambiente naturale, delle memorie storiche, di una vita comunitaria che ha anche leggi diverse dal profitto; e tutto ciò in rapporto talora di conflitto aperto, più spesso di coesistenza anche assai ambigua col mondo ufficiale tecno-burocratico.

 

a) La riscoperta della voga tradizionale

Per le acque interne la reazione ambientalistica è partita dalla gravissima crisi di quella grandiosa città d’acque che è Venezia. Essa e la laguna sono incompatibili con la vita moderna, condannate allo spopolamento e all’abbandono. Non contava la motorizzazione ormai totale dei trasporti lagunari, non l’industrializzazione di grandi aree strappate alle acque: se non a render più penoso il disagio degli abitanti, il senso di frustrazione di essere rimasti a vivere in un ambiente che per la modernità è assurdo.

     Negli anni 70 l’arte della voga e la costruzione artigianale delle barche appartenevano ormai a quel regno dei ricordi d’altri tempi di cui dicevamo, sopravvivendo solo a servizio della sempre più ristretta casta dei gondolieri. Persino le associazioni remiere preferivano il canottaggio all’inglese e la canoa, ripudiata la voga tradizionale, quasi effigie dell’uomo legato a un mondo tramontato.

     In questa atmosfera da finis Poloniae la prima Vogalonga, nel 1975, ebbe l’effetto d’una bomba. Vogare tutti insieme, migliaia di persone, la laguna gremita di barche, era come un  silenzioso grido, più forte di mille invettive contro il canale dei petroli e le onde dei motoscafi e l’inquinamento dell’aria e dell’acqua. L’uomo al remo rifaceva questa scoperta straordinaria e semplicissima: che lui, lì, in quell’ambiente naturale e tra quei ricordi artistici e storici, era al suo posto. E tanto più v’era a posto, se vogava alla maniera padano-veneta, in piedi guardando avanti, e sulle barche tradizionali della laguna, che, piccole e grandi, erano le regine della manifestazione, anche se giustamente erano ammesse tutte le barche a remi e tutti gli stili di voga.

     Il successo andò aumentando nelle edizioni che si susseguirono ogni anno: nel 1980 si arrivò a contare 1500 barche con circa 5000 partecipanti (cifre raggiunte di nuovo nel 2004 e 2005, dopo alcuni anni di calo). Una città! Ma i vogatori venivano da tutta Italia, dai paesi d’Europa, persino dagli Stati Uniti, dalla  Cina e dal Giappone. Le remiere venete, vecchie e nuove, andarono a gara nel munirsi di splendide imbarcazioni di rappresentanza a dieci, dodici, diciotto remi. Tutto questo ha fatto rifiorire un’arte (come s’è detto) vicina a estinguersi: la costruzione e riparazione delle barche di legno tradizionali; anzi sono rinati persino dei tipi di barca scomparsi da secoli, che oggi potevamo ammirare solo nei quadri di Pietro Longhi e Francesco Guardi: il mussin, la vipera, vari tipi di puparini gondolini.

     Io lì sono a posto. Io con una certa identità, con un  patrimonio di memorie e d’affetti che non mi lascio strappare. Sarà vero che l’uomo volta le spalle alle acque? Io no.

     Sono 32 chilometri per la laguna, sino a Burano e ritorno in città, rientrando per Cannaregio e Canal Grande, il più fantastico percorso trionfale che vi sia al mondo: altro che Champs Elysées! (al sottoscritto, che vogava su una barca da otto della Canottieri Padova, è rimasto impresso il grido di una donna al balcone: Padoani bei! che è tutto dire, se si pensa che nell’antica Dominante la campagna o terraferma non è che goda di gran considerazione).

     Tornato a casa entusiasta, il vogatore foresto ha esportato l’idea, e dal modello della Vogalonga son nate tante altre manifestazioni non competitive, non così affollate ma, talune, quasi altrettanto sentite nel luogo dove si svolgono: prima di tutte, dal 1980, la Voga Lunga (non so se è evidente la filiazione!) da Cremona a Casal Maggiore, che coi suoi 54 km. giù per il Po è la vogata più lunga d’Europa; poi la Riviera fiorita sul Naviglio di Brenta (seconda domenica di settembre), bellissima per le barche adorne di fiori e la corona di folla festosa e plaudente; la Regata ecologica dell’Adda da Lodi a Pizzighettone (l’aggettivo palesa il voluto legame con l’ambiente); la Remada a seconda in due tappe, da Padova a Battaglia e di qui a Pontelongo (caratteristica per l’allegro caos di imbarcazioni d’ogni fattezza, anche improvvisate con bancali e bidoni); la vogata intorno ai colli Euganei, da Lozzo a Monselice sul canale Bisatto; la Vogata ecologica ferrarese, eccetera. 

     Naturalmente vi sono anche le vogate competitive, sul modello delle più classiche regate venete; spesso anzi sono più antiche della Vogalonga, facendosi in occasione di feste patronali e simili. Ma qui la componente agonistica e spettacolare è ovviamente più forte di quella partecipativa: siamo in un normale ambito sportivo, coi suoi contorni di tifo e persino di divismo.

     Infine, lo stesso atteggiamento che ha portato alla rivalutazione della voga ha trascinato anche la riscoperta della vela tradizionale: la vela al terzo dell’alto Adriatico, delle lagune e dei fiumi padano-veneti; ma per ora solo in ambito lagunare, dove esistevano agili barche da tagiavento come il topo e la sampierota, capaci di ogni andatura e adatte anche al mare; mentre su fiumi e canali la vela si limitava a una funzione ausiliaria, adoperata solo con vento favorevole al posto del motore animale o remiero o in aggiunta a essi.

     Nelle terre estensi vi sono per adesso solo due gruppi che cercano di tener viva la tradizione locale della voga e della vela: la sezione comacchiese dell’Associazione nazionale marinai d’Italia e i ferraresi Barcar ad Puatel. A Comacchio la pratica della voga in piedi, a remi o a paradello, nonostante le su accennate trasformazioni ambientali è ancora relativamente diffusa anche tra i giovani, sopra tutto per un motivo ben preciso, che essa è necessaria per la caccia in valle, e chi è più svelto si prende la botte situata in posizione più vantaggiosa. Dell’antico mondo anfibio, dunque, qualcosa laggiù rimane ben vivo.

 

 b) Il recupero delle memorie della navigazione: musei e restauri.

Nell’anno scolastico 1977/78 il trevigiano Elio Franzin, professore di francese nelle scuole medie, teneva i corsi serali delle così dette 150 ore per gli aspiranti alla licenza, avendo fra l’altro una classe nel paese di Battaglia. Impegnato in politica, il battagliero Franzin trovava molto stimolante il clima di quest’isola rossa della bassa Padovana clericale, dove i suoi allievi erano lavoratori dell’officina Galileo e dello stabilimento termale, le due attività che avevano preso il posto della cessata navigazione interna. Che Battaglia fosse un paese di ex barcai, Franzin se ne accorse quasi per caso, sebbene alcuni degli allievi avessero fatto quel mestiere e molti avessero dei vecchi barcai in famiglia: tanto presto, e persino con tanta cura, era stata rimossa quella memoria così recente. Richiesti di rispondere a un questionario intorno alla loro passata attività, i vecchi barcai temevano di essere presi in giro.

     Ma l’interesse per l’argomento cominciò a diffondersi. Le ricerche scolastiche organizzate dal Franzin, nelle quali si era inserito il centro culturale Concetto Marchesi di Battaglia, furono rese note dalla stampa locale e confluirono l’anno seguente in una grande mostra fotografica su Battaglia Terme e la navigazione fluviale, che rimase aperta per un mese nei locali del circolo. Il 16 luglio 1979 il Mattino di Padova, nel dar notizia della chiusura di essa, aggiungeva: “Si pensa di trasformarla in Centro stabile”.

     Ne nacque infatti il Museo della navigazione fluviale di Battaglia, istituito nel 1985 dall’amministrazione comunale grazie alla collaborazione di molti ex barcai (primo dei quali Riccardo Cappellozza, tuttora custode, animatore e  factotum) e di studiosi di arte marinaresca, costruzione navale e tradizioni popolari. Uno di questi, Pier Giovanni Zanetti (che poi diventò anche direttore del museo) fondava inoltre a Padova l’associazione Lo squero per il ricupero di barche tradizionali venete di dimensioni non piccole: prima delle quali, il moto-burchio Nuova Maria (già Nadia) del 1947, di 50 tonnellate di portata, accuratamente restaurato a Chioggia dal 1992 al 1994 e adattato al trasporto di passeggeri (60 persone) per gite turistiche e dimostrative della vecchia marineria fluviale.

     Si faccia attenzione a questo punto molto importante: lo stretto collegamento tra la funzione di raccolta di memorie e documenti, propria del museo, e lo sforzo di ricuperarle, per quanto è possibile, anche per un uso vivo. Lo stesso museo di Battaglia, infatti, come contiene nella sua sede modelli, fotografie, registri, attrezzature e strumenti di lavoro, parti di scafo o interi scafi piccoli, così possiede anche intere barche più grandi collocate all’esterno, sia in secco sia in acqua, sotto la cavana costruita dal Genio civile di Padova per il locale circolo remiero El Bisato presso la ricordata conca del 1923. È la  stessa idea che ha dato vita, nel campo della navigazione marittima, al famosissimo museo di Cesenatico, con barche che stanno a galla e all’occorrenza levano gli ormeggi e navigano, per partecipare a varie manifestazioni come per esempio i corsi di archeologia navale di Cattolica: l’esatto opposto del museo ottocentesco di stampo positivistico, raccolta di reperti scientificamente classificati ma irrimediabilmente morti come farfalle infilzate sugli spilli.

     La stessa idea del ricupero di barche vive, che costituisce lo scopo di altre associazioni come l’Arzanà di Venezia, è stata abbracciata anche da società sportive (con intenti anche culturali) come la Remiera Euganea di Monselice, che dopo aver ripristinato una massiccia caorlina, sulla quale ha avuto l’onore di vogare anche il sottoscritto, ha promosso nel 2005 un corso di restauro diretto da un maestro d’ascia di Venezia, che ha prodotto anche il concreto risultato del ricupero di un’altra barca tradizionale.

     Nei territori estensi un museo della navigazione del Po è in corso di allestimento a Boretto con materiale appartenente all’Azienda regionale per la navigazione interna dell’Emilia-Romagna; merita di esser visitato anche il nuovo Museo etnografico delle acque  di Crespino, piccolo ma ordinatissimo, situato in alcune stanze del municipio (si notino, oltre al classico ed elegante battello padano, imbarcazioni più singolari come quella assai tozza del Canal Bianco e la zatterina da caccia usata dal principe Pio); a Comacchio è notevole la raccolta di barche di valle sequestrate ai pescatori di frodo, che si trova nei locali restaurati dell’ex Azienda comunale delle Valli, e tra le barche grandi le comaccine Natale  del 1948 e Riccardo I  del 1920 circa: la prima è di proprietà comunale, la seconda lo diventerà se sarà accettata la donazione di Vittorio Zappata che ha il merito di quest’importante ricupero.

     Sono casi isolati, preziosissimi tuttavia: si pensi che di certi tipi di barche come la rascona, la padovana, la pescantina dell’Adige, nessun esemplare sopravvive, restano solo fotografie e disegni. Delle 1041 barche maggiori di legno, rilevate dallo Zanetti da un accurato spoglio dei registri degli Ispettorati di porto (istituiti nel 1950) il medesimo ne  censiva soltanto 15 ancora conservate nel 1998: delle quali appartengono (se non per costruzione, almeno per uso) a quell’ambito estense che direttamente c’interessa, solo le due comacchiesi menzionate e la relativamente tarda moto-gabarra Cometa del 1962, già ormeggiata a Codigoro (dove si trovi adesso, non so). A quasi tutte le amministrazioni locali sembra che la cosa interessi meno di nulla. Una proposta d’istituire un piccolo museo galleggiante nella darsena di Ferrara, fatta dal sottoscritto il 28 febbraio 2000, quand’era dipendente di quel comune, non credo che l’abbia neanche mai letta nessuno.

 

 c) L’interesse ambientalistico e storico per i corsi d’acqua

Un altro reduce dall’esperienza di Battaglia (e dalla Vogalonga), il ricordato Franzin, nel 1980 fondava a Padova il gruppo degli Amissi del Piovego, “associazione culturale ed ambientalista di voga alla veneta”: era voluta e dichiarata, dunque, la combinazione dell’interesse sportivo, comune con tutte le altre società remiere fiorite o rifiorite in seguito al successo della Vogalonga, con gli scopi della tutela dell’ambiente fluviale e dello studio della civiltà delle acque. Era dichiarato l’impegno nella politica urbanistica: la lotta aperta contro la mentalità che aveva portato alla copertura del Naviglio interno e di altri canali della città,  significava rendersi conto che codesto era uno soltanto fra molti orrori che non riguardavano solo i corsi d’acqua. Nessun’altra associazione sportiva, credo, è arrivata al punto da stampare un volantino intitolato: Vogata alla veneta contro la svendita del Pp1 alla speculazione immobiliare (28 febbraio 2004)!

     Oltre a organizzare  vogate (e ovviamente a partecipare a quelle organizzate da altri) gli amissi del disprezzato canale padovano hanno promosso una serie infinita di conferenze, dibattiti, convegni, operazioni di volontariato come lo sterro (semiclandestino, in principio) eseguito dai soci stessi per disseppellire la scalinata cinquecentesca del Portello, negletta dalla burocrazia dei beni culturali: e tutto ciò con tale insistenza, e spesso con così accorta gestione diplomatica, da riuscire a sensibilizzare le autorità come il comune e il genio civile, e a divulgare un corretto uso sportivo, turistico e ricreativo delle acque del centro urbano, per quanto abbandonate dalle altre due remiere padovane. Già da decenni esisteva la linea del vaporetto turistico che rinnovava il nome del Burchiello di goldoniana memoria, sul classico percorso del Piovego e del Naviglio di Brenta, sostando per permettere la visita di alcune delle più famose ville venete: ma oggi sono ben cinque le società di navigazione turistica attive a Padova, anche su percorsi brevi all’interno della città. Alcune partono dalla scalinata del Portello, restaurata dal comune in seguito alla riscoperta fatta dagli Amissi del Piovego; altre dalla conca cinquecentesca delle Porte Contarine, riaperta dal genio civile dopo lo stombinamento degli ultimi cinquanta metri del Naviglio interno, cioè il breve tratto che collega la conca col Piovego. Il manufatto non era stato distrutto, data la sua importanza storica e monumentale, ma sopravviveva isolato e umiliato, ormai privo di senso.

     “L’operazione ha un grande significato. – scrive il Casetta – Innanzitutto perchè è stata ritenuta impossibile, per motivi che si sono rivelati non tanto tecnici quanto culturali: una sorta di scarsa propensione ad immaginare un’inversione di tendenza rispetto al tombinamento. (…) In secondo luogo non si tratta di un’operazione condotta per fini estetici, sebbene questi si rivelino considerevoli: i lavori sono finalizzati a rendere fruibile il complesso monumentale alle imbarcazioni  di quanti vogliano raggiungerlo per la sua via naturale. L’operazione, infatti, è stata sollecitata non solo dalle associazioni di voga padovane, ma anche dalle agenzie turistiche che solcano le acque del Piovego: si immagini l’interesse di un punto d’imbarco nel pieno centro di Padova, che consenta di arrivare direttamente a Venezia. Per ultimo si deve considerare che era l’acqua a rendere possibile la comprensione delle singole funzioni dei manufatti che formavano il complesso delle Porte Contarine, perchè era ad essa che tutti i manufatti si trovavano coordinati”.

     A Battaglia il Genio civile ha compiuto un’altra opera di grande importanza, inconcepibile senza quell’assidua opera di riscoperta, propaganda e sensibilizzazione che proprio lì era nata. Il 21 marzo 1998 si riapriva la conca di navigazione non più in uso da decenni: la reinauguravano le barche dell’associazione Lo squero e delle società remiere. Seguiva, su commissione fatta al Genio dal comune di Battaglia e dall’ente Parco regionale dei Colli euganei, un “progetto di realizzazione del nodo idraulico della conca di navigazione di Battaglia Terme e attrezzatura dell’area per un utilizzo a fini turistici”, nell’ambito del quale è stato costruito lo spazioso e robusto ricovero di legno sopra accennato, che ripara piarda e pontili ad uso sia del museo sia del circolo El Bisato. Si noti bene che impianti di questo genere, semplici e rispettosi dell’ambiente, sono del massimo aiuto alla diffusione del diporto remiero, il quale, pur essendo abituato a farne anche a meno, si contenterebbe

di punti d’appoggio ancor più modesti (bell’esempio: la baracca e la cavana degli Amissi del Piovego a Padova) non avendo certo bisogno delle sofisticate attrezzature dei porti turistici della nautica consumistica.

     Vanno nello stesso senso varie altre iniziative di ricupero, come quelle sostenute dagli Amici dei Navigli, associazione nata nel 1986, per i canali milanesi, e il progetto di ripristino del canale Perotolo a Chioggia. Anche a prescindere dalla navigabilità, la sanità ambientale dei corsi d’acqua è oggetto di attenzione al più alto livello tecnico da parte del Centro italiano per la riqualificazione fluviale, associazione che intende promuovere la cura dell’assetto ecologico e di quello fisico-idraulico dei fiumi, rimediando sia al degrado in cui versano molti di essi, sia agli errori delle varie sistemazioni idrauliche  stile cemento armato, fatte senza nessuna sensibilità per l’ambiente.

     Questa sensibilità è, a mio parere, proprio al centro della questione. Sembra infatti che dal punto di vista della navigazione possa l’antica rete idrografica, così naturale come artificiale, sopravvivere in una sostanziale continuità operativa (cioè sia conservandone l’efficienza fisico-idraulica, sia tenendo in uso le opere d’arte come chiuse, ponti mobili, darsene, piarde, alzaie), a patto d’intendersi in maniera ben chiara sulle caratteristiche della nautica da promuovere. Il Vallerani, studiando il ricupero e  riuso turistico dei canali artificiali inglesi, come i nostri abbandonati dalla navigazione commerciale, ha notato che questo fenomeno, colà stabilmente affermatosi (la prima iniziativa in tal senso risale al 1955), comporta il prevalente impiego di natanti di tipo tradizionale, coerenti col paesaggio e con le caratteristiche tecniche delle vie d’acqua. Vengono dati a noleggio da più di ottanta compagnie, essendo una minoranza le barche di proprietà del turista.

     Con questo ci colleghiamo a ciò che si diceva sopra, alla lettera b. Da noi infatti, a parlare di uso turistico delle acque interne, si rischia di non far pensare ad altro che al motoscafino privato, con motore spesso enorme, o ben che vada a house-boats che sono orridi cubi di plastica. Manca la cultura del valore ricreativo della navigazione tradizionale, non v’è ancora la ricerca di una nautica sostenibile, di cui ha diffusamente parlato sempre il Vallerani: pratica in cui la la navigazione lenta, contemplativa del paesaggio, volentieri accompagnata dalla pesca sportiva, ha come contorno l’uso delle vie alzaie per gite a piedi, in bicicletta e a cavallo, visita di ville e altre attrattive a breve distanza dalle acque, percorsi integrati con le ferrovie, e altro che concorre a fare della via d’acqua una sorta di corridoio turistico e culturale.

     Insostenibile è invece, per esempio, l’uso del corso d’acqua come pista per esibizioni motonautiche, identiche a quelle del motorino lanciato su una strada deserta. Sul Po morto di Primaro, ufficialmente navigabile tuttora ma in pratica abbandonato da cinquant’anni, sono bastati pochi mesi di frequentazione da parte di motoscafi e gommoni, richiamati da un’incauta propaganda turistica, a suscitare le proteste dei  rivieraschi disturbati e danneggiati da onde esagerate: si è arrivati a chiedere all’A.R.N.I. che il canale venga chiuso del tutto alla navigazione. Ecco dunque che con lo sviluppo sbagliato si rischia di ottenere l’esatto contrario di quella continuità operativa a cui si accennava sopra.

     Perchè le idee siano ben chiare è necessario imporre dei limiti di velocità e potenza dei motori, e farli rispettare rigorosamente. Anche vietare del tutto la propulsione meccanica può convenire in tratti determinati, come è convenuto sinora nel primo tronco della risvolta di Cona del Po di Volano, anche se il motivo del divieto, la destinazione di quel tronco alla pesca di mestiere, oggi in pratica non sussiste più.

     Le risvolte del Po di Volano meritano una considerazione particolare. Si tratta dei rami abbandonati in seguito alle rettificazioni dell’alveo fatte nel XIX secolo a più riprese, ma per la maggior parte quando furono immesse nel canale le acque della bonifica di Burana; rami che conservano le sagome di quel Po antecedenti all’aumento di portata e agli ulteriori allargamenti compiuti nel secolo XX per motivi sia idraulici sia di navigazione. Alcuni sono scomparsi o son divenuti ciechi, come quello di Medelana (già di 2,6 km.) che a monte di questo paese è prosciugato mentre a valle è mantenuto in efficienza dal canale d’irrigazione San Nicolò – Medelana, scavato negli anni 30. Il più lungo (10 km.) è quello di Marozzo, che in  questa località comunicava per mezzo di una conca, abbandonata dal 1969, col soppresso canale per Comacchio di cui s’è parlato. Per tutti la destinazione alla navigazione è cessata ufficialmente una trentina d’anni fa, ma in  pratica ogni movimento era sparito già molto prima.

     La risvolta di Cona, che sottende il diversivo di Focomorto aperto nel 1899, ha origine alla Prinella e termina a Contrapò, per un corso di km. 8,65. Permetteva il transito di barche della portata massima di 40 tonnellate, ma adesso vi si entra da monte solo con battelli e simili, perchè i detriti portati dalla corrente del ramo più largo formano all’incile un cavedone, destinato tra qualche anno ad affiorare chiudendo del tutto la via. Dragaggio, sgarbatura e rimozione degli alberi caduti mancano da tempo immemorabile. Altro ostacolo è dato da un  tubo dell’acquedotto, che traversa a valle di Codrea all’altezza di 90 cm. dal pelo medio dell’acqua.

     Questo bellissimo tronco del Volano, che come ho detto ne conserva le proporzioni di oltre un secolo fa, se liberato dall’incuria che lo sta seppellendo sarebbe un luogo ideale di ricupero dell’ambiente fluviale. Conserva la strada d’attiraglio (rastara) in sinistra, che potrebbe diventare un’ottima pista ciclabile; a valle di Cona passa per il sostegno a conca del 1674 (abbandonato in occasione dell’apertura del drizzagno di Focomorto) che potrebbe essere restaurato, pur senza porte, quale esempio notevole di opera idraulica dell’epoca; il divieto di navigazione a motore, oggi vigente dalla Prinella al Seminario, potrebbe essere esteso a tutta la risvolta. Sarebbe insomma un ottimo banco di prova per un vero intervento d’ingegneria ambientale.

 

Conclusione

Il primo atteggiamento che abbiamo esaminato in questo scritto, cioè il rifiuto e l’emarginazione dell’ambiente fluviale, corrisponde al modello culturale dominante, del quale un sociologo ravvisa un’impressionante affermazione nell’ultima grande alluvione del Po: modello “che assumeva il Po come nemico, come mostro da esorcizzare, e come presenza da ignorare e da rimuovere dalla coscienza collettiva. Gli effetti negativi continuano a pesare fortemente sull’area che fu la Transpadana ferrarese”, e ovviamente non solo su quella, potendosi considerare addirittura come proprio della mentalità moderna l’ignorare e il rimuovere dal mondo umano la presenza, già così viva, dei corsi d’acqua.

     A chi non vuol questo, a chi sente che l’uomo è parte di un insieme naturale, sociale e culturale in cui un  felice rapporto con le acque è segno di ordine, fecondità, vitalità; chiedo di riflettere sulla proposta che ho avanzato in questo modesto scritto, il cui carattere incompleto e disordinato nasce dalla varia casualità delle mie esperienze: colui che non vi abbia trovato la menzione di luoghi, problemi, tentativi di soluzione a lui noti, o che non sia d’accordo con ciò che ho detto, mi farà non un dispiacere ma cosa graditissima se lo comunicherà alla redazione della rivista. Se questo scritto avrà almeno provocato una discussione, avrà già sortito il suo effetto.

     Riassumendo dunque la tesi, che credo già implicita in tutto quel che precede, per il ricupero dei corsi d’acqua al mondo della vita dell’uomo sono necessarie insiemequeste tre cose: a) promuovere gli sport ecologici della voga e della vela, con preferenza per le tecniche tradizionali che assicurano il più vitale rapporto con l’ambiente; b) coltivare le memorie della passata navigazione commerciale e promuovere una navigazione turistica compatibile con l’ambiente, privilegiando le gite collettive e l’attività di noleggio, fatte con natanti rigorosamente controllabili, possibilmente vecchie barche commerciali il cui restauro e adattamento dovrebbe essere favorito da contributi pubblici; c) riscoprire l’importanza dei corsi d’acqua con adeguata cura delle loro caratteristiche naturali e artificiali, dei monumenti artistici e dei ricordi storici legati al loro percorso. Nel paragrafo precedente si è appunto inteso di passare in rassegna degli esempi di questi tre tipi di azione.

     Tutte e tre, se promosse nella maniera che ho cercato di descrivere, sono destinate a scontrarsi con il modello culturale dominante. È chiaro per esempio che, sin che la voga non sarà diventata popolare quanto il cicloturismo, dagli esemplari del moderno superuomo, come lo scafista della domenica e il ragazzo che corre in motorino sull’argine, il faticatore del remo sarà guardato con annoiato disprezzo, quale bizzarro relitto d’un poco piacevole passato. È chiaro, per fare un altro esempio, perchè il nominato traghetto fra Berra e Villanova Marchesana, che era l’ultimo passo del Po, finalmente, dal primo gennaio 2005, si sia fermato anch’esso. Provvisoriamente? La sensazione è che la sua sopravvivenza sia alquanto problematica.

     A cosa serve un traghetto sul Po? Perchè questo assurdo segno di vita nel nulla? L’interruzione del servizio, nel caso particolare, è causata da una controversia tra il passatore e gli enti che lo sovvenzionano: provincie di Ferrara e Rovigo, comuni di Villanova, Berra, Crespino, Papozze. L’assessore  Ricci mi ha ricevuto gentilmente e mi ha dichiarato che la provincia di Ferrara attribuisce al traghetto la massima importanza e sostiene volentieri la maggior parte dell’onere; ma che d’altra parte è difficile convincere i comuni a spendere dei soldi per un servizio che interessa meno dell’un per cento dei loro abitanti. E con  questo, ahimè, ricadiamo in pieno nella mentalità che abbiamo descritto nel primo paragrafo  e in questa conclusione.

     Sul Carlino del 15 settembre si legge che gli enti, in attesa di indire una gara d’appalto, hanno concordato di rinnovare la convenzione che vigeva sino all’anno scorso. Speriamo che almeno questa storia vada a finir bene.

 

Note 

Dopo un doveroso ringraziamento a Riccardo Cappellozza, Luigi Lugaresi e Mihran Tchaprassian, che mi hanno dato dei suggerimenti molto utili, aggiungo alcune indicazioni bibliografiche e altre notizie che potranno servire a chi voglia approfondire l’argomento e sopra tutto dedicarsi  a qualcuna delle attività sportive, ricreative e di volontariato descritte nel testo.

 

  1. Il passo di F. Vallerani è preso da Il museo civico della navigazione fluviale di Battaglia Terme, a cura di F. Marchioro, s.l. 2003, p. 3. Intorno alle attività legate all’ambiente anfibio padano-veneto vedi almeno: Mestieri della terra e delle acque, Milano 1979 (la parte relativa alle acque comincia a p. 135); La civiltà delle acque, Cinisello Balsamo 1993; C. Grandis, in La navigazione fluviale e il museo di Battaglia Terme, a cura di P.G. Zanetti, Padova 1998, p. 36 sgg.;  I mestieri del fiume. Uomini e mezzi della navigazione, a cura di P.G. Zanetti, Este 1998 (= “Terra d’Este”, VIII, n. 15-16).

      Una delle più importanti di queste attività era quella dei molini natanti, oggi scomparsa ma immortalata dal grande romanzo di Bacchelli: cf. G. Beggio, I mulini natanti dell’Adige, Firenze 1969; G. Andreotti, in “Studi polesani”, VIII (1980), p. 31 sgg.; L. Lugaresi, in “Padania”, IV (1990), n. 8, p. 177 sgg.; E. Graziosi, ivi, p. 203 sgg.; R. Vergani, in La civiltà… cit., p. 52 sgg. Per un elenco completo dei molini: Ministero dei lavori pubblici, Atti della commissione per lo studio della navigazione interna nella valle del Po, Roma 1903, relaz. IV, p. 69 sgg.

      Sui passi o traghetti del Po e il loro funzionamento: M. Milanesi, in “Padania”, IV (1990), n. 8, p. 52 sgg. (a p. 65 sg. acute osservazioni sul progressivo allontanamento delle comunità dalle rive, da me riprese nel testo); in particolare su quello di Berra-Villanova cf. D.B., in “Qui Po”, II (2003), n. 7, pp. 1. 10.

     Della rete delle vie fluviali di trasporto, oggi in gran parte cancellata (quanto alla continuità operativa), un accuratissimo censimento fu eseguito quand’essa era ancora efficiente dalla commissione ministeriale presieduta dal deputato padovano Leone Romanin-Jacur: Atti della commissione… cit., voll.  9 (relazione generale e relazioni I-VIII): è utile consultarla intorno a tutti i corsi d’acqua citati nel testo. Per una sintesi, riccamente illustrata con fotografie che documentano un ambiente umano allora vivissimo: Ministero dei lavori pubblici, Laghi, fiumi e canali navigabili, Milano 1905.

     Sui canali della Grande bonificazione del Polesine di S. Giovanni, adibiti anche a uso di navigazione: V. Biancardi, in La Grande bonificazione ferrarese, II, Ferrara 1987, p. 110 sg.

     Sul canale Boicelli come asse di zona industriale: La zona industriale di Ferrara, Ferrara 1938. Su Battaglia capitale dei burchi: Canali e burci, Battaglia Terme 1980; F. Selmin, in I mestieri del fiume cit., p. 47 sgg.

     La frase di L. Avventi è in Atti del I congresso nazionale della navigazione interna. Padova 9-12 giugno 1949, Padova 1955, p. 261.

     Intorno alla Fossa Polesella e al relativo sostegno a Po (anch’esso eliminato nel 1956; era opera quattrocentesca di Biagio Rossetti, modificata nel XVII secolo e più tardi): A. Franceschini, in Uomini, terra e acque. Atti del convegno Rovigo 19-20 novembre 1988, Rovigo 1990, p. 55 sgg.; A. Mazzetti, in La bonifica tra Canal Bianco e Po, Rovigo 2002, p. 109 sgg.

     Contro la soppressione del canale Marozzo si pronunciava a suo tempo un esperto: V. Montanari, Vicende idrauliche ferraresi dal 1850 ad oggi, Ferrara 1969, p. 15 sg. Quanto a Comacchio, aver chiuso oltre metà dei canali urbani non è ancora nulla, se si è arrivati a rendere impraticabile il resto per mezzo di due chiaviche collocate in posizione strategica: dove la bestialità è giunta davvero ai vertici dell’incredibile.

 

  1.  Sul Naviglio di Modena: O. Baracchi – A. Manicardi,  Modena: quando c’erano i canali, Modena 1985; M. Pellegrini, in Vie d’acqua dei ducati estensi, Reggio Emilia 1990, p. 11 sgg.;  A. Spaggiari, ivi, p. 39 sgg.; F.M. Pozzi, ivi, p. 117 sgg.

     Già nella prima metà dell’800 era manifesta l’inadeguatezza del Canale di Modena, per quanto intensamente utilizzato allora, se nel 1840 furono iniziati i lavori per un nuovo tronco che da Bomporto portava direttamente a valle del Finale, evitando il Panaro. Rimasti interrotti nel 1859, l’idea non fu però abbandonata e portò infine alla proposta di un canale per barche sino a 350 tonnellate che tagliava fuori, oltre al Panaro sino a S. Bianca, anche tutto il vecchio naviglio: A. Vecchi, La via d’acqua Modena-Po. Progetto, Modena 1919. Arrivato sino al finanziamento per apposita legge, il progetto non procedette oltre, mancando evidentemente di appoggi politici del calibro di quelli che sostenevano in quegli anni l’idrovia ferrarese (un Italo Balbo).

     Intorno al Naviglio di Bologna (percorso da navi di non oltre 18 tonnellate) e al porto cittadino: A. Vianelli, Luci e ombre del Canale Navile, Bologna 19742 ; T. Costa, Il grande libro dei canali di Bologna, Bologna 2005, p. 115 sgg.

     La traversa Badia-Villanova-Fratta-Pizzon (alto Adigetto e Scortico) come la linea Tartaro – Canal Bianco – Po di Levante, della quale era considerata diramazione, era classificata tra le vie navigabili di 2classe dal D.Luog. 31 maggio 1917, n. 1536 (n. 35 dell’elenco allegato) mentre il restante Adigetto apparteneva alla 3classe (D.Luog. stessa data, n. 1650: n. 7 dell’elenco). Altre diramazioni della suddetta linea ai sensi dello stesso decreto erano la Fossa e Fossetta d’Ostiglia (tra Po e Tartaro), il Naviglio Bussè (fra Tartaro e Adige) e la Fossa Polesella (tra Po e Canal Bianco). Ciò sia detto non per sopravvalutare l’importanza di questa classificazione burocratica (vale sempre l’osservazione dell’Avventi, sopra riportata) ma per mostrare che era ancora vivo, quand’essa si formò, quel concetto di rete padana di navigazione che si è cercato di delineare nel testo.

     L’espressione città di campagna viene da G.A. Cibotto, Rovigo città di campagna, Bergamo 1968.

 

  1.  a)  Riguardo alle manifestazioni e alle attività citate nel testo, do alcuni indirizzi utili. Comitato organizzatore Vogalonga – S. Marco, 951 – 30124 Venezia – tel. 041/5210544 – posta elettronica: [email protected]  Un importante riconoscimento della rinascita della voga veneta, e insieme stimolo al suo ulteriore sviluppo, si è avuto con la L.R. del Veneto 27 gennaio 1999, n. 5, che destina contributi ad associazioni e circoli  per “sostenere ed incentivare la pratica della voga alla veneta vista sia come disciplina sportiva sia come espressione della tradizione culturale e popolare”. Nulla di simile nelle altre regioni dell’alta Italia, quantunque lo stile di voga che vi si adopera tradizionalmente, comunque si  voglia chiamarlo, sia il medesimo.

     Associazione Vela al terzo – presso ferramenta Gino Luppi – Piscina San Zulian – Venezia – tel. 339/2030114. Si veda qui sopra una fotografia della comaccina Riccardo I a due alberi con vele al terzo; e ad un albero il battello padano di Giuseppe Raisa, nel mio articolo in ricordo dell’amico scomparso, in “Terre estensi”, n. 3 (gennaio-marzo 2005), p. 35. È noto che le barche fluviali da carico abbandonarono generalmente la vela negli anni 50, quando in un estremo tentativo di sopravvivere al mutar dei tempi imbarcarono dei lenti ed economici motori Diesel.

     Sezione di Comacchio dell’A.N.M.I. – Via dello Squero, 20 – 44022 Comacchio (tel. del presidente Guerrino Ferroni: 0533/310140).

     I barcar ad Puatel – presso Antonio Antonioni – Via Panfilio, 17 – 44100 Ferrara – tel. 0532/206633. Intorno a questo gruppo di voga tradizionale  cf. N. Bardi, nel cit. n. di “Terre estensi”,  p. 31 sgg.

  1. b) Sul “corso delle 150 ore e la scoperta dei barcari”, e la conseguente nascita del museo di Battaglia: E. Franzin, in Canali e burci  , p. 17 sgg.; Il museo civico…cit., p. 5 sgg. Sul museo come fattore di riequilibrio territoriale: F. Vallerani, in I mestieri del fiume cit., p. 21 sgg. Ecco l’indirizzo: Museo civico della navigazione fluviale – Via Ortazzo, 63 – 35041 Battaglia Terme – tel. 049/525170 – posta elettronica: [email protected]

     Associazione “Lo squero” – Via Guizza, 79 – 35125 Padova – tel. 049/8807800 – [email protected]  Intorno alle costruzioni navali tradizionali v’è una gran quantità di scritti: M. Bonino, Archeologia e tradizione navale tra la Romagna e il Po, Ravenna 1978; Id., in Mestieri della terra… cit., p. 215 sgg.; Id., in Studi sulla civiltà del secolo XVIII a Ferrara, II, Ferrara 1981, p. 139 sgg.; G. Adani, in Vie d’acqua… cit., p. 107 sgg.; P.G. Zanetti, in La navigazione fluviale… cit., p. 20 sgg.; Imbarcazioni e navigazione del Po. Storia, pratiche tecniche, lessico, a cura di F. Foresti – M. Tozzi Fontana, Bologna 1999;  M. Morsiani, in “Ferrara. Voci di una città”, n. 17 (dicembre 2002; sul battello ferrarese); per citarne solo alcuni. Per il lessico tecnico vedi anche G. Turato – F. Sandon, in Canali e burci cit., p. 157 sgg. In particolare sugli squeri P.G. Zanetti, in I mestieri del fiume cit., p. 119 sgg.; R. Brizzi, in Imbarcazioni… cit., p. 91 sgg.; A. Tosi, ivi, p. 127 sgg.

     Per i corsi di restauro di Monselice rivolgersi all’Associazione remiera euganea – tel. 0429/73480, oppure 348/8414315 (Damiano) o 348/0022743 (Giacomo).

     Il museo del Po di Boretto, sebbene non ancora aperto al pubblico, si può visitare prendendo accordi col municipio (tel. 0522/965601); ha un prevalente carattere di archeologia industriale, traendo origine da un vecchio stabilimento del genio civile. Sempre a Boretto (località Croce) è pienamente efficiente (e per di più collegato a una buona trattoria della stessa proprietà) un piccolo museo, unico nel suo genere, relativo al cessato ponte di barche per Viadana: Casa dei pontieri – Museo “Dino Gialdini” – Via Argine, 3  – 42022 Boretto (RE) – tel. 333/4012619 – [email protected]  Per visitare il museo di Crespino, telefonare in municipio (0425/780490): farà da guida lo stesso artefice del museo, il consigliere comunale Guido Ronconi. Infine per quanto attiene al Riccardo I,  ormeggiato ora nel Canale Lombardo di Comacchio, rivolgersi a Vittorio Zappata – Via Romea, 55 – 44020 S. Giuseppe (Comacchio) – tel. 0533/380378.

     Alle istituzioni nominate nel testo si può aggiungere, come pertinente all’argomento delle acque, il Centro etnografico della civiltà palustre – Largo Tre Giunchi, 1 – cas.post. 31 – Villanova di Bagnacavallo (RA) – tel. 0545/47122.

      Per i dati dei registri degli ispettorati  e l’elenco delle barche conservate: P.G. Zanetti, in I mestieri del fiume  cit., p. 90 sgg.

  1. c)Amissi del Piovego – Via S. Massimo, 137 – 35129 Padova – tel. 049/8722256 – [email protected] Come testimonianza dell’indefessa attività di questa associazione, si può consultare una quantità di opuscoli, progetti, atti di convegni e simili (alcuni titoli: La navigabilità del Piovego e la circumnavigazione di Padova; Lo stombinamento del canale Alicorno dal bastione di Santa Croce al Pra’ della Valle; Per il dragaggio mirato del tronco Maestro) a cui hanno collaborato tecnici e studiosi, e persino un periodico, oggi cessato, “Il Piovego. Foglio mensile di cultura ambientalista”. Il giorno della riapertura delle Porte Contarine (5 marzo 2000) è stato un vero trionfo per Franzin e soci.

Su questo monumento ricuperato (nel senso più volte accennato della continuità operativa) si veda P. Casetta, Le Porte Contarine a Padova, Padova 1999 (il passo citato nel testo è a p. 7 sg.). Sulla riapertura della conca di Battaglia: Il museo civico…  cit., p. 46.

     Associazione Amici dei Navigli – Via Rasori, 12 – 20145 Milano – tel. 02/48018230 – [email protected]  Ha curato pubblicazioni d’altro genere, cioè di lusso con ricche illustrazioni, quantunque anch’esse finalizzate a progetti, p.es. E. Malara, Milano città porto, Milano 1996; In viaggio sui Navigli, Milano 2001. Sul progettato ripristino del canale Perotolo: P. Tiozzo Netti – P.G. Tiozzo, in “Chioggia”, n. 17 (novembre 2000), p. 7 sgg.

     Indirizzo del Centro italiano per la riqualificazione fluviale, diretto dall’ing. Giuseppe Baldo, dipendente di un consorzio idraulico: C.I.R.F. – Viale Garibaldi, 44/a – 30173 Mestre – tel. 041/615410 o 335/7489969 – [email protected]

     Sulla nautica sostenibile: F. Vallerani, Vie d’acqua del Veneto, Battaglia Terme 1983, p. 20 sgg.; Id., in Lo spazio costiero italiano, Firenze 1995, p. 127 sgg.; Id., I luoghi, i viaggi, la folla, Padova 1997, p. 79 sgg. Sul ricupero dei canali inglesi: Id., in Oltreconfine, a cura di A. Pasinato, estr. s.n.t., p. 229 sgg.

     All’Accademia dei Concordi di Rovigo ho trovato una pionieristica proposta, non attuata, di ricupero turistico, originale anche per la dichiarata attenzione alla vela e al remo:  (F. Gasparetto – R. Barbujani), Una nuova via di navigazione per il turismo e lo sport, ciclost. (poco dopo il 1976); riguarda proprio il tanto bistrattato Adigetto, ma solo a valle delle Botti Barbarighe, e di qui in su, sino a Rovigo, lo scolo Ceresolo. Altrettanto ardita era l’idea, sostenuta all’incirca in quegli anni dal Canoa Club Ferrara, di creare un percorso canoistico in un altro povero Naviglio medievale, quello di Baura, poi rovinato da una squallida copertura a Quacchio e a Ponte Gradella. Volendo si vedano i miei Appunti per tre percorsi di archeologia industriale sulle acque interne ferraresi, ds. presso l’autore. Modello del genere degli itinerari turistici fluviali è la citata guida del Vallerani delle Vie d’acqua del Veneto, da lui interamente percorse in barca o in canoa.

     Sulla chiusa di Cona e le altre del Po di Volano: C. Balboni, in La pianura e le acque tra Bologna e Ferrara. Atti del convegno Cento 18-20 marzo 1983, Cento 1993,  p. 97 sgg.

 

  1.  Il sociologo citato è E. Fornasari, in Per una storia di Occhiobello, a cura di C. Gnudi, Ferrara 1991, p. 204.