A Forlì, nel museo di S. Domenico, è aperta dal 20 gennaio al 22 giugno una grande mostra di Guido Cagnacci, pittore non molto noto prima della riscoperta fattane da Francesco Arcangeli e da Cesare Gnudi in occasione delle mostre del Seicento emiliano da loro curate a Rimini nel 1952 e a Bologna nel 1959; ma per una monografica si dovette aspettare il 1993, pure a Rimini. Questa mostra forlivese, curata da Antonio Paolucci e Daniele Benati, si presenta come la rassegna più ampia e organica del pittore di Sant’Arcangelo, e comprende anche opere di altri artisti a lui vicini, come Lanfranco, Serodine e Vouet tra i seguaci del Caravaggio, Gessi e Cantarini tra quelli del Reni. Dello stesso Reni è esposto il famosissimo “Ratto d’Europa” della Galleria nazionale di Londra, e del Caravaggio la “Maddalena penitente” della Galleria Doria Pamphilj di Roma, per un opportuno confronto con le pitture del Cagnacci del medesimo soggetto.
Motivo dominante dell’esposizione vuol essere proprio il rapporto fra il nostro e i due più celebri, rapporto che non è di soggezione nonostante le ben visibili influenze: per questo non si è esitato a definirlo, nello stesso sottotitolo della manifestazione, “Protagonista del seicento tra Caravaggio e Reni”.
Nato nel 1601, visse a Rimini, dove lavorò molto per le chiese locali; a Bologna, dove conobbe il Guercino e Guido Reni; a Venezia, documentato dal 1649; e infine a Vienna, alla corte dell’imperatore Leopoldo I, dove morì nel 1663. Col Guercino fu a Roma nel 1621-22, e grazie alla conoscenza di committenti facoltosi avviò un’intensa produzione di quadri “da stanza”, coi quali acquistò fama come l’artista che meglio sapeva trasporre sulla tela la morbida sensualità della figura femminile: ed ecco la lunga serie di Lucrezie, di Maddalene, di Cleopatre morenti, delle quali ultime la più “reniana” è quella di una collezione privata di Bologna, riprodotta in copertina della cartella informativa della mostra; mentre in un’altra Cleopatra, quella famosa della Pinacoteca di Brera, la morbidezza del corpo femminile si esalta in “una sintesi percettiva per alcuni aspetti degna quasi di Vermeer” (Brogi). Le ultime opere nel campo delle pittura da chiesa sono, con altri due quadri forlivesi, i “quadroni” con la “Gloria dei SS. Mercuriale e Valeriano”, protettori di Forlì, collocati in duomo nel 1644, con lo straordinario cielo d’un azzurro terso d’estate, in cui campeggiano le figure potentemente naturalistiche dei santi patroni e degli angeli svolazzanti.
Più antico, risalente (sembra) al 1629-31 circa, è un altro quadro che non si dimentica, la “Madonna col bambino e tre santi Carmelitani”, della chiesa riminese di S. Giovanni Battista: inquietante intreccio di simboli mistici nell’evidenza naturalistica dei corpi e negli effetti preziosi della luce; composizione elaboratissima che coordina tre distinte ierofanie convergenti verso l’alto, dove la mitra vescovile posata sulle nubi, con la sua forma triangolare chiaramente rappresenta il Padre eterno. L’Arcangeli aveva messo in risalto “l’estasi quasi tremenda della Santa Teresa svenuta,… abbandonata al viola cianotico delle labbra schiuse, alle ombre che le feriscono gli occhi semispenti”; altrettanto sconvolgente è la faccia dell’angelo che vibra il dardo dell’amor divino, nella quale una luce drammatica, quasi fiamminga, dipinge un sorriso di sublime ironia, che non sai se dire dissimulazione del “mysterium tremendum” dello Spirito Santo o scherno della fragile natura, unico appoggio dell’arte umana.