william congdon

Breve scheda biografica di William Congdon

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Un artista americano che si trasferisce a vivere in Italia

William Congdon nacque a Providence (Rhode Island) il 15 aprile del 1912, la stessa data dell’affondamento del Titanic: per questo, quasi quarant’anni dopo, Peggy Guggenheim credeva di riconoscere in lui una sorta di reincarnazione del padre, scomparso in mare nella tragedia del transatlantico. La coincidenza non è solo bizzarra, segna invece uno dei due possibili approcci alla vicenda biografica dell’artista. Si tratta di una vita lunga (Congdon è morto a Milano il 15 aprile del 1998, il giorno del suo ottantaseiesimo compleanno) e straordinariamente fitta di episodi, di viaggi, di incontri, di esperienze. Prima di ogni altro, lui stesso l’ha riletta più volte proprio nei termini di una sequenza di fatali appuntamenti con il destino: non sarebbe difficile dunque ricavarne un romanzo. Ma ciò rischierebbe di farci perdere contatto con la sua pittura, con la sua ricerca; di vederle soprattutto come la conseguenza di fatti esistenziali. È preferibile pertanto ripercorrere in estrema sintesi i dati della biografia per lasciare spazio ad alcuni elementi che possono consentire di comprendere meglio il senso di questa mostra.
William Congdon nasce da una ricca famiglia di industriali e banchieri del New England. Inizia il suo percorso di artista solo dopo l’università, e come scultore. Durante la seconda guerra mondiale fu autista di ambulanze nell’American Field Service, tra i primi a giungere nel campo di sterminio di Bergen Belsen.
Dopo la guerra tornò in Italia, per contribuire alla ricostruzione di un paese in larga parte distrutto. Qui scoprì fino in fondo la sua vocazione di pittore. Al rientro a New York divenne un artista apprezzato dal pubblico, dalle gallerie, dalla critica, ma sentì che non avrebbe potuto vivere in America perché, malgrado l’orrore del conflitto, vi vedeva riaffiorare logiche di affermazione e di profitto esasperato: il suo destino era quello dell’expatriate, di un uomo sempre in viaggio, con radici incancellabili, ma anche col bisogno di patrie nuove. Tornò ancora in Italia e per quasi dieci anni tenne uno studio a Venezia, sia pure viaggiando continuamente. Nel 1959 si convertì alla fede cattolica: per qualche anno dipinse solo soggetti di carattere religioso. Si accorse poi che si poteva essere cristiani anche tornando a mostrare, come aveva fatto in precedenza, i luoghi e le sofferenze del mondo. Negli anni ’60 e ’70 ebbe uno studio ad Assisi. Dal 1979 al ’98 visse a Gudo Gambaredo, alla periferia di Milano, accanto a un monastero benedettino, pur continuando a viaggiare. Le sue opere si trovano nei più importanti musei americani, in collezioni pubbliche e private, italiane e non; la parte più cospicua è stata conferita alla Fondazione che porta il suo nome.
William Congdon, 1912-1998, Analogia dell icona William Congdon, 1912-1998, Analogia dell icona William Congdon, 1912-1998, Analogia dell icona

La forma: l’ultimo Action Painter

Con l’eccezione dei primissimi anni della sua attività di pittore, segnati da un forte sperimentalismo (disegni, acquerelli, gouache su carta, fino all’impiego dell’olio, inizialmente applicato su una notevole varietà di supporti), William Congdon si è mantenuto sempre fedele a una sorta di specifico protocollo creativo, che affonda le proprie radici nell’esperienza newyorkese dell’Espressionismo astratto quando, con Pollock, Rothko, de Kooning e altri protagonisti (tra cui lui stesso), la pittura americana seppe svincolarsi dall’eredità dell’arte europea del primo Novecento e imporsi, da allora, come uno dei laboratori cruciali del moderno. Per definire il modo in cui si dipingeva a New York alla fine degli anni ’40, Harold Rosenberg inventò il termine Action painting, la pittura dell’azione, del gesto. Il termine sottolinea il fatto che gli artisti non sapevano in anticipo che cosa sarebbe uscito dal loro pennello, che l’immagine nasceva solo nel momento stesso dell’esecuzione: nell’atto.
Congdon è stato sempre un action painter. Uno schizzo essenziale, talvolta, all’inizio, poi la preparazione, decisiva, dei colori, in certi casi mescolati con la sabbia, il caffè in polvere, lo smog; infine il gesto rapidissimo, da giocoliere, con una spatola larga (che non consente i ripensamenti o i pentimenti del pennello) che stende e impasta i colori. Per molti anni, su questa densa superficie, Congdon ha scavato il colore con un punteruolo, ha disegnato graffiandolo e incidendolo prima che si seccasse. Un poco per volta quel suo bisogno di scavare si attutì, ma non scomparve mai del tutto: negli ultimi quindici anni della sua vita l’immagine si è affidata sempre più alle masse di colore, anche a un unico tono, che tuttavia nasconde, dentro di sè, le sfumature di una misteriosa ricchezza. Fino all’ultimo, invece, Congdon ha adoperato come supporto dei suoi dipinti un pannello, di masonite per lo più (un supporto rigido, cioè: non esistono praticamente opere sue su tela), preparato con un fondo nero; il pittore ha scritto spesso che quel nero, che talvolta affiora anche nel quadro finito, è il costante interlocutore di ogni suo altro colore, una sorta di secondo autore dell’opera, a garanzia che il quadro non viene fatto, ma nasce da un incontro.
La fedeltà a questa procedura, mantenuta per quasi quarant’anni oltre la storica conclusione dell’Action painting – per cui Fred Licht ha potuto scrivere dell’arte di Congdon come di un rarissimo fenomeno di survival (di sopravvivenza) e non di un tanto più comune revival -, contraddistingue in maniera inconfondibile il percorso e l’opera del pittore. Essa scaturisce dunque dal costante impiego di un rito.

Il contenuto: persistenze simboliche

Congdon ha cominciato davvero a voler dipingere durante la guerra, a contatto con la fragilità della vita, con la morte, con il dolore, con le rovine di un’Europa sgretolata: solo allora riconobbe l’urgenza di dire qualcosa. In qualche modo possiamo dire che la sua poetica nasce dal confronto con simboli forti, e dal bisogno di evitare, per quanto possibile, il peso e i vincoli del soggettivismo dell’artista. Da un lato ciò spiega la presenza e la ripetizione, nei suoi dipinti, di elementi simbolici: il disco del sole, per esempio, che dalle prime vedute di New York, dove appare talvolta nero, rosso, altre volte spezzato in due, scandisce per lunghi decenni la sua raffigurazione del mondo, e che diventerà d’oro, per riprendere il titolo di un suo libro, dopo la conversione al cattolicesimo. Dall’altro ci aiuta a comprendere i soggetti verso cui la sua pittura si orienta: la città, soprattutto, intesa come una sorta di luogo di oggettivazione di tante diverse esperienze.
Congdon ha dipinto molte città. Napoli sfigurata dalle bombe, all’inizio; New York, vista dall’alto, che certe volte pare esplodere, che altre sembra distrutta, senza più forma, come se una bomba invisibile l’avesse spezzata, da dentro. E poi Venezia, Roma, Assisi, Parigi, Atene, Istambul, Milano, Bombay, Calcutta. Nella sua pittura però le rovine scompaiono. Congdon ha voluto mostrarci i grandi segni della storia: le chiese, le piazze, i palazzi, anche qui come se volesse privilegiare punti di vista diffusi, addirittura popolari, senza snobismi. Si tratta sempre di uno spazio che pare sull’orlo di un precipizio: sagome ingigantite o deformate, piazze che si incurvano sino a inghiottire edifici e persone, stazioni in cui una folla di occhi si accalca. È facile riconoscere Piazza San Marco, la Tour Eiffel, la basilica di San Francesco ad Assisi, il Colosseo, l’Acropoli. Ma non sono mai le immagini frettolose del turista. I suoi occhi sanno ascoltare e per questo nei dipinti i colori sono più veri, divengono simboli, colgono l’intimità di tutte le vite vissute in quei luoghi: l’oro di Venezia, il grigio di Parigi, il rosso di Roma, la luce della Grecia, il nero dell’India.

La Trinità Icona Trinità William Congdon, 1912-1998, Analogia dell icona William Congdon, 1912-1998, Analogia dell icona

Tre tappe in un cammino mistico

La continua lotta di Congdon contro la soggettività dell’artista, la rincorsa a uno sguardo oggettivo che potesse trasformare il dipinto in una rivelazione, in uno svelamento di ciò che spesso i nostri occhi non sanno vedere, non è lontana, in un certo senso, dall’esperienza mistica: in entrambi i casi si tratta di fare spazio, all’immagine o alla presenza. Tutto il suo percorso, anche precedentemente alla conversione, può essere letto in questa chiave. Possiamo riconoscervi tre tappe fondamentali.
La prima è Venezia. Luogo romantico per eccellenza, dove il moderno si trova a fare i conti con la storia bimillenaria della sua tradizione, la città non appare tanto a Congdon come la capitale della grande svolta, da Giorgione e Tiziano in qua, della pittura europea, quanto piuttosto come la porta di un Oriente che seguita a esercitare in lui un fascino pervasivo: il suo concentrarsi sulla Basilica marciana, l’impiego degli smalti, l’equilibrio delle composizioni sono indizi di un’attenzione per il grande retaggio bizantino.
La seconda è l’Umbria, i luoghi di Francesco (che in qualche modo si collegano a quelli benedettini di Subiaco, nel Lazio, dove il pittore trascorse le estati per 16 anni, dal 1963): qui Congdon entra in contatto con una religiosità profonda, radicata, popolare. Qui si confronta con l’antica pittura italiana, due e trecentesca, senza la quale risulterebbero incomprensibili, per l’arcaica narratività, per le scelte cromatiche, per la struttura compositiva, i suoi soggetti dei primi anni dopo la conversione.
La terza è la Lombardia, dove Congdon giunge definitivamente nel 1979, dopo i due soggiorni in India alla metà degli anni ’70: ed è proprio la coscienza, che là aveva preso forma, di un’umanità sdraiata, schiacciata a terra, ridotta a larva, la molla potente che lo condurrà a rileggere le distese dei campi e dei fossi che scorgeva dalla sua casa di Gudo, e che saranno i suoi soggetti prevalenti degli ultimi vent’anni di pittura, nel senso della riscoperta, ormai con piena coscienza, della dimensione creaturale, più che creativa, del fatto artistico. Riscoperta che si è tradotta nella registrazione, rigorosa e affascinante, dei ritmi oggettivi della terra, del trascorrere delle stagioni, del velo della nebbia che purifica il nostro desiderio ottuso di voler guardare al di là delle superfici.

Analogia dell’icona: la luce del buio

Il titolo di questa mostra riprende e sviluppa una vecchia intuizione di Massimo Cacciari sulla pittura di Congdon: una pittura che, come abbiamo visto, tende a rifiutare le componenti psicologiche e soggettive del fatto artistico; che si mantiene fedele a precisi riti procedurali; che assiste al divenire di un atto, quasi l’opera d’arte nascesse e non fosse realizzata. In questo senso tutto il percorso di Congdon appare inscritto in una dinamica che è analoga a quella del pittore di icone, anche se alla foglia d’oro stesa sulla superficie del dipinto, che rinvia alla luce dell’epifania del divino, si sostituisce il fondo nero che rivela l’intima drammaticità della moderna coscienza. E a tutto ciò possiamo aggiungere la persistenza di forme simboliche nelle sue composizioni, un atteggiamento mistico nei confronti delle immagini e dei colori che incontra.
Non è solo questo. Alla base della pittura di icone, così come appare nella riflessione di san Giovanni Damasceno e come confermerà il II concilio di Nicea, sta il mistero dell’Incarnazione. Il fatto che il Figlio di Dio si sia reso visibile diviene infatti la garanzia della nostra possibilità di raffigurare il divino. Congdon aggiunge qualcosa a questo millenario ripensare il fondamento dell’arte cristiana: egli coglie il massimo dispiegarsi dell’Incarnazione nella Passione e nella morte di Gesù. È sufficiente considerare il catalogo dell’artista: al di là del periodo immediatamente successivo alla conversione, quando osserviamo una serie di soggetti ricavati soprattutto dal Nuovo Testamento, esso annovera poco meno di duecento raffigurazioni del Crocifisso.
Una ricerca infinita, durata vent’anni, ma che trova echi e risonanze ulteriori nelle rappresentazioni delle terre lombarde, che diventano quasi l’emblema di una realtà sepolta e trasfigurata. Se Hegel aveva scritto che dopo il romanticismo “non abbiamo più un’espressione artistica di fronte alla quale sia possibile inginocchiarci”, William Congdon, il più romantico tra tutti i protagonisti della Scuola di New York, ha saputo invece consegnarci le immagini della Passione e della morte di Cristo più vere di tutto il XX secolo: perché non ha quasi dipinto la croce, ma un corpo, il corpo di un’umanità che la storia rende senza speranza, e che pure ha la possibilità di incontrare il divino.
Congdon ha saputo, con i mezzi della sua arte, dell’Espressionismo astratto, mostrarci il dramma della morte senza fare ricorso a facili resurrezioni; ha provato, forse inconsapevolmente, a ricomporre la frattura che si era consumata nel Rinascimento tra arte occidentale e arte orientale: l’una preoccupata di fornirci anatomie sempre più perfezionate, ricalcate sulla tradizione classica, l’altra protesa a mostrare, nell’oro, la verità radicale della Pasqua. Nei Crocefissi di Congdon c’è la sfatta concretezza della carne ma anche il bagliore della cancellazione della morte: una luce che sorge dal nero dei suoi fondi e dal dialogo dei suoi colori; la luce del buio. La sua è l’icona impossibile del nostro tempo.

Info
Esposizione alle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari, Vicenza
Apertura al pubblico dal 3 settembre al 13 novembre 2005
da martedì a domenica, orario 10.00 – 18.00
Catalogo Electa in mostra
Biglietto di ingresso alla Mostra e alle Gallerie
intero: euro 4,50
ridotto: euro 3,50
Informazioni e prenotazione gruppi
Tel. 800.578875
Fax 0444.991280
www.palazzomontanari.com
[email protected]

Informazioni per la stampa:
Fatima Terzo, Banca Intesa Beni culturali, tel. 0444.991221
Francesca Dal Cortivo, tel. 0444.544852

William Congdon 1912-1998. Analogia dell’icona. Un cammino nell’espressionismo astratto: Vicenza, Gallerie di Palazzo Leoni Montanari dal 3 settembre al 13 novembre
3 settembre – 13 novembre 2005
Mostra promossa e realizzata da Banca Intesa e The William G. Congdon Foundation

Banca Itesa e la promozione della cultura

Nel panorama delle relazioni e del dialogo costante tra Banca Intesa e le comunità nelle quali opera, i progetti culturali e sociali rappresentano un modo concreto per assicurare la partecipazione attiva dell’Istituto alla vita del Paese, per contribuire al suo sviluppo economico, sociale, culturale e per assicurare un fecondo rapporto con le tante realtà regionali di cui viene condivisa la crescita civile. Riconoscendo nel principio di “responsabilità civica” il riferimento prioritario delle proprie politiche culturali e sociali, in una linea di continuità con il proprio passato, l’impegno di Banca Intesa nell’area della cultura si attua coniugando costantemente le iniziative progettate e realizzate dall’Istituto – derivanti da autonomi obiettivi – ad altre azioni nelle quali viene espressa una partnership attiva per il sostegno e la promozione dell’attività di enti di grande rilevanza formativa e scientifica. In questa ricerca ininterrotta per amalgamare l’operatività istituzionale con la produzione di valore e di utilità collettivi è possibile riconoscere l’aspirazione di Banca Intesa ad esprimere un’autentica cultura sociale, il senso di una cittadinanza che la porta a scelte e interventi capaci di trasformarsi in contributo alla crescita, alla conoscenza, alla convivenza.
Animati da medesimi valori e nel contesto di un’unica strategia, gli interventi promossi da Banca Intesa nell’area della cultura si muovono soprattutto lungo due direttrici: la salvaguardia e la valorizzazione dei Beni culturali del Paese; il restauro e l’approfondimento storico-critico delle proprie collezioni d’arte, finalizzati al pubblico godimento.

Gli interventi per la salvaguardia e la valorizzazione dei beni culturali del paese

In questo ambito di intervento, l’impegno di Banca Intesa trova efficace espressione nel progetto denominato Restituzioni, programma di restauro di opere d’arte di destinazione pubblica promosso e gestito in collaborazione con gli organismi di tutela competenti, le Soprintendenze territoriali. Avviato alla fine degli anni ’80, nel corso delle sue varie edizioni il progetto ha consentito di salvare più di quattrocento opere, una sorta di ideale museo con testimonianze che spaziano dalle epoche proto-storiche fino alle soglie dell’età contemporanea, dall’archeologia all’oreficeria, alle arti plastiche e pittoriche, inizialmente di area veneta, poi lombardo-veneta e infine, da quest’anno, in un quadro nazionale.
Compiutamente sintetizzato nel titolo è l’articolato percorso attraverso cui si sviluppa il progetto, che si pone come obiettivo la restituzione in pristinam dignitatem di una serie di opere d’arte danneggiate dal tempo; la restituzione delle stesse agli Enti proprietari; la restituzione alla collettività perché interpreti la riappropriazione come stimolo ad un più consapevole collegamento al proprio patrimonio civile e culturale.
Nell’ambito del medesimo progetto si collocano gli interventi di restauro realizzati a scala monumentale, accuratamente scelti tra i luoghi particolarmente significativi sotto il profilo storico e artistico, autentici luoghi-simbolo della memoria civile e religiosa, locale e nazionale. Esempi significativi di realizzazioni compiute negli anni recenti possono essere i mosaici pavimentali paleocristiani della Basilica di Aquileia, gli affreschi di Altichiero e Avanzo nella Cappella di i San Giacomo nella Basilica del Santo a Padova, il cortile d’onore di Villa Bozzolo a Casalzuigno appartenente al FAI , lo studiolo di Gian Giacomo Poldi Pezzoli nell’omonimo museo a Milano, l’atrio federiciano del Castello Svevo di Bari e la Torre Civica di Bassano del Grappa.

Il patrimonio d’arte di Banca Intesa e la pubblica fruizione

Accanto all’intensa attività nell’ambito della valorizzazione e della tutela dei Beni culturali del Paese, Banca Intesa ha articolato già da qualche anno uno specifico progetto volto alla conoscenza delle proprie raccolte d’arte.
Il patrimonio artistico Intesa risulta essere, oggi, il singolare risultato di una serie diversificata di vicende collezionistiche, ciascuna collegata in modo esemplare alla storia e alla tradizione mecenatizia degli Istituti confluiti in Banca Intesa. Ereditando tali raccolte, è stata avvertita l’esigenza prioritaria di una riflessione sul delicato problema della gestione di rilevanti tesori in vista di una pubblica fruizione.
Per dare risposte concrete, fondamentale è stata la consapevolezza che la conservazione delle opere d’arte non può andare disgiunta dallo studio e dall’approfondimento storico-critico. Così ciascuna collezione è stata posta sotto la tutela scientifica di un apposito comitato composto, per ogni diverso settore, dai più importanti esperti e studiosi nazionali ed internazionali, con l’obiettivo di ottenere una catalogazione sistematica delle opere ritenute di rilevante interesse culturale.
Diverse sono le direttrici adottate per consentire la diffusione della conoscenza del patrimonio d’arte Intesa.
La messa in rete delle informazioni relative alle collezioni già catalogate scientificamente, con un sistema interattivo in grado di offrire conoscenza e approfondimento a quanti – musei, studiosi e cultori – siano interessati alle opere d’arte di Banca Intesa, nonché la pubblicazione di cataloghi a stampa che raccolgano i risultati degli studi e presentino in modo sistematico le singole raccolte – come quello in tre tomi edito nel 2003 e relativo all’intera collezione di icone russe di proprietà dell’Istituto -, sono iniziative che consentono di sperimentare un luogo di condivisione, certo virtuale e mediato, ma altamente funzionale e disponibile a tutti.
L’ideazione e realizzazione di mostre temporanee utilizzando parte delle collezioni, che ha trovato concreta espressione nella mostra Poesia della realtà al Museo Puškin di Mosca nell’inverno 2002/2003, o nell’esposizione Miti Greci tenutasi nell’autunno 2004 a Palazzo Reale di Milano, o nel programma espositivo itinerante L’ultimo Caravaggio. Il Martirio di Sant’Orsola restaurato. Collezione Banca Intesa, che nel corso del 2004 ha permesso ad un pubblico di centocinquantamila persone – nelle tre sedi espositive, la Galleria Borghese di Roma, la Pinacoteca Ambrosiana di Milano e le Gallerie di Palazzo Leoni Montanari di Vicenza – di ammirare il dipinto recuperato al suo aspetto originario dall’impegnativo restauro voluto dall’Istituto e curato presso la sede dell’Istituto Centrale del Restauro.
Ma il gesto forse più innovativo adottato da Banca Intesa, fortemente voluto dal Presidente Giovanni Bazoli per mettere a disposizione del pubblico in modo permanente due delle proprie collezioni, è l’istituzione di una propria sede museale.
Il progetto ha coinvolto Palazzo Leoni Montanari a Vicenza, trasformato dalla primavera del 1999 nelle omonime Gallerie per consentire per la prima volta in maniera stabile e continuativa la visita del pubblico ai tesori d’arte ivi racchiusi. Gli ambienti del palazzo barocco – caratterizzati dall’esuberante decorazione plastica e pittorica di soggetto mitologico – ospitano al piano nobile una preziosa raccolta di pittura veneta del XVIII secolo, espressiva dell’ultima, splendida stagione pittorica della Serenissima, tra cui un significativo corpus di tele di Pietro Longhi, vedute urbane e “capricci” architettonici di Canaletto, Luca Carlevarijs, Francesco Guardi.
Il piano alto del palazzo accoglie invece circa centrotrenta icone russe dal XIII al XIX secolo – una significativa selezione della raccolta ritenuta dagli studiosi una delle più importanti in Occidente – esposte secondo le più aggiornate attenzioni museali e didattiche.
Le tavole non esposte – circa trecentocinquanta – sono conservate in un deposito studiato secondo i più adeguati criteri di conservazione, in apposite griglie agevolmente consultabili da studiosi e cultori. Accanto a questa struttura sono attivi il laboratorio di restauro, dove si è appena concluso il restauro dell’intera collezione, il centro di catalogazione e la biblioteca specialistica, riferimento per quanti siano impegnati ad approfondire le tematiche legate all’arte dell’icona, dai cui computer è possibile anche interrogare l’Index of Christian Art, l’importante archivio di documenti ed immagini dedicato all’arte medievale sviluppato dalla Princeton University.
Fitto il programma di didattica – rivolta agli allievi delle scuole elementari e medie del territorio nonché agli adulti interessati – e di convegni specialistici: da ricordare il Simposio internazionale, L’icona russa e la Modernità, tenutosi nel novembre 2003, che ha portato a Vicenza alcuni tra i massimi studiosi di arte e cultura russa.
Le esposizioni temporanee programmate fanno riferimento ad un progetto pluriennale che si prefigge – di mostra in mostra – l’approfondimento delle infinite emergenze artistiche sviluppatesi nei secoli, compreso il presente, scaturite dall’avvento della fede cristiana. Appuntamenti degli anni scorsi da ricordare sono Arte e Sacro Mistero. Tesori dal museo russo di San Pietroburgo (2000), Icone dai Musei Albanesi (2002) che hanno indagato i variegati aspetti di un universo apparentemente lontano e misterioso per arrivare a riconoscere, oltre le apparenze, le radici comuni che avvicinano Oriente e Occidente.

Le collezioni Intesa

Riflesso in gran parte delle atmosfere culturali, delle tradizioni figurative e del gusto caratteristici delle regioni e del periodo storico in cui i singoli soggetti confluiti per fusione in Banca Intesa hanno costruito la propria storia, le collezioni d’arte dell’Istituto si distinguono per ricchezza e varietà.
Esemplare in tal senso è innanzitutto la collezione di ceramiche attiche e apule (V-III secolo a.C.) che vanta più di cinquecento pezzi, tra vasi ed altri reperti. L’ingente corpus si è costituito nella prima metà dell’Ottocento in seguito alla scoperta della immensa necropoli di Ruvo di Puglia, i cui scavi hanno portato alla formazione di diverse e importanti raccolte – come la Caputi-Resta pervenuta ad Intesa – contribuendo, con i reperti più significativi, ad arricchire le collezioni antiche dell’Ermitage, del Louvre e di altre prestigiose istituzioni museali europee.
Di grande rilevanza è poi la collezione di antiche icone russe, caratterizzata dalla presenza di autentici capolavori rappresentativi della grande varietà delle scuole dell’antica Rus’. Si tratta di una raccolta messa insieme dal Banco Ambrosiano Veneto nel corso degli anni Novanta con l’acquisizione di tavole provenienti da una collezione privata italiana, successivamente incrementata con acquisti mirati sul mercato internazionale fino a raggiungere il numero di quattrocentotrenta pezzi.
La raccolta di pittura e scultura dal XV al XVIII secolo annovera un centinaio di opere e comprende alcuni capolavori, tra cui il Martirio di Sant’Orsola di Caravaggio e alcune vedute di Roma e di Napoli del Vanvitelli.
Al Settecento veneto appartengono poco più di settanta opere: di tale raccolta il nucleo forse più celebrato è il cosiddetto “gruppo Longhi”, un insieme di quattordici opere già collezione Salom di Palazzo Corner Spinelli a Venezia. A queste tele, che rappresentano un vero e proprio réportage sulla vita della società veneziana, si accompagnano le vedute urbane e i “capricci” di alcuni illustri rappresentanti dell’ultima stagione della grande pittura veneziana, come Canaletto, Francesco Guardi, Michele Marieschi, Francesco Albotto, Luca Carlevarijs.
Uno straordinario significato, non solo artistico ma anche storico-culturale, assume la collezione di opere dell’Ottocento (più di duecento tele). Le vedute di autori quali Canella, Carcano, Inganni, Delleani e altri ci restituiscono – con le suggestioni di luci e colori di una città come Milano che si specchia sui Navigli – l’atmosfera urbana di luoghi oggi trasformati.
A completare il quadro delle singole collezioni che fanno parte, oggi, del patrimonio di Banca Intesa, è la raccolta di opere del Novecento italiano che si deve in particolare all’apporto della Banca Commerciale Italiana. Accanto a documenti dei maestri (Boccioni, Balla, Depero, Funi), più di duemilacinquecento pezzi sono rappresentativi soprattutto delle scuole, degli autori e dei movimenti d’avanguardia del secondo Novecento. Le opere, suddivise per correnti omogenee, delineano un percorso culturale che attraversa tutto il secolo, testimoniandone significativamente gli aspetti più salienti, gli entusiasmi, le provocazioni e le problematiche che hanno caratterizzato la nostra storia recente.
Home page Raccolte storico-artistiche dal sito internet di Banca Intesa (per approfondimenti, consultare il sito web www.bancaintesa.it – sezione Beni culturali oppure www.palazzomontanari.com )