carpaccio dipinto

Le Gallerie dell’Accademia presentano i nove dipinti del ciclo più famoso del Carpaccio

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Il Carpaccio sta godendo di una insolita congiunzione astrale dopo una eclissi di 41 anni dall’unica, memorabile, mostra monografica a Palazzo Ducale di Venezia. Dopo un momento di notorietà a fine 1999 a Palazzo Grassi, con la riunificazione, grazie allo stelo di un giglio, di due tavole enigmatiche (Due dame del Correr e Caccia in valle del Getty), ecco una triplice apparizione di questo che a Venezia, fra fine Quattrocento e inizi Cinquecento, è l’eccezionale “regista” di Storie dipinte quanto mai complesse.
A Palazzo Ducale una tavola databile tra il 1489 e il ’90, Madonna in adorazione del Bambino con San Giovannino, sottovalutata per lungo tempo a causa del precario stato di conservazione in cui era giunta nel 1840 al Museo Correr, è stata restaurata e identificata con l’opera del Carpaccio (ancora vicina ai modi belliniani) del monastero di San Giacomo alla Giudecca, uno dei tanti fatti sopprimere da Napoleone. Le riflettografie hanno dimostrato le differenze tra disegno preparatorio e dipinto.

A Bologna, alla Pinacoteca Nazionale, dal 28 novembre al 13 febbraio 2005, Carpaccio (insieme a Canaletto) è addirittura nel titolo della mostra sui Tesori d’arte italiana dal Museo nazionale di Belgrado il più importante dell’area balcanica. Sono cinquanta capolavori fra Trecento e Ottocento, presentati per la prima volta in Italia, spesso sconosciuti (o non studiati) non solo dal grande pubblico, ma dagli studiosi. La parte più rilevante è formata dalla scuola veneta come Carpaccio, Tintoretto, Bassano, i grandi vedutisti (Canaletto, Marieshi, Guardi). Del Carpaccio ci sono due tavole, San Rocco e un San Sebastiano dall’inconsueta iconografia: non solo trafitto dalle frecce, ma con le mani imprigionate a mo’ di manette al ramo di un albero. Provengono dalla collezione fiorentina Contini Bonacossi e sono probabilmente due “naufraghi” di un polittico smembrato. Sulla loro autografia ci sono alcune ombre.

Ma la festa del Carpaccio è di nuovo a Venezia, dal 27 novembre al 13 marzo 2005, alle Gallerie dell’Accademia, sala XXIII. Una sola sala, ma la stessa che fino al febbraio scorso ha riunito le “maraviglie” del Giorgione. Il polo museale veneziano diretto da Giovanna Nepi Scirè, con queste mostre ha inaugurato una formula molto intelligente (ed anche molto difficile): riunire un numero ridotto di dipinti, ma grandi capolavori, attorno ad una idea o per l’occasione di un restauro fondamentale. Per Giorgione era il salvataggio della Pala di Castelfranco. In tutto nove opere. Per Carpaccio sono otto tele più un piccolo disegno. E la ragione della mostra è riunire due dei grandi cicli per cui il pittore è famoso, nati per Venezia e dispersi fra vari musei in Italia e all’estero: i sei dipinti delle Storie della vita della Vergine, fatti intorno al 1504 per la “Scuola degli Albanesi”, e i quattro sopravvissuti delle Storie della vita di Santo Stefano, del 1511-1520 per la “Scuola di Santo Stefano”, di cui due sono presenti in mostra più il disegno che è copia di un originale perduto.

Come valore aggiunto, per rimanere al tema dei grandi cicli (ma ci sono altri quattro Carpaccio), le Gallerie dell’Accademia offrono ai visitatori, con un unico biglietto, i nove dipinti del ciclo più famoso del Carpaccio e in assoluto uno dei più noti della storia dell’arte, le Storie di Sant’Orsola (1490-1495) per l’omonima “Scuola”, e la straordinaria sequenza, anche nelle dimensioni che sfiorano i quattro metri per quattro, della Guarigione dell’ ossesso del 1494, uno dei Miracoli della reliquia della Santa Croce per la “Scuola di San Giovanni Evangelista”. E se in Italia le mostre di arte antica debordano regolarmente, come una inondazione del Nilo, dai palazzi, monumenti, luoghi che le contengono, per continuare nella città, nei borghi, nelle campagne, questa regola vale al massimo grado per Venezia, superpotenza d’arte e di storia. Così i Carpaccio delle Gallerie dell’Accademia continuano con i Carpaccio (nove tele) di un altro grande ciclo delle Storie dei santi Girolamo, Giorgio e Trifone, l’unico che dal 1502 è rimasto nel luogo (ha cambiato solo piano) per il quale è stato dipinto, la “Scuola dalmata di San Giorgio degli Schiavoni” a Castello. E i visitatori delle Gallerie avranno uno sconto a San Giorgio.

Le “Scuole”, una istituzione tipicamente veneziana, erano sodalizi a carattere benefico che riunivano lavoratori della stessa professione o cittadini stranieri di una determinata “nazione” (albanesi, dalmati). Punto di riunione, appoggio per beneficio reciproco e verso il prossimo. Erano confraternite che offrivano anche un luogo in cui “si possino ridur e far le sue divotioni”. Pietro Zampetti (il curatore e organizzatore della mostra del 1963) ci ricorda che le “Scuole” “raggiunsero, nel periodo di maggior splendore della Repubblica, una notevolissima importanza, anche per il decoro, anzi la magnificenza, delle sedi”. E il Carpaccio è il pittore delle “Scuole”. Ben quattro (Sant’Orsola, degli Albanesi, Santo Stefano, San Giorgio degli Schiavoni) “furono completamente ornate dai suoi ‘teleri'”. Per la “Scuola di San Giovanni Evangelista” dipinse la Guarigione dell’ossesso, secondo Giovanna Nepi Scirè, “uno dei più straordinari ‘ritratti di città’ di tutta la pittura rinascimentale”, una particolareggiata sequenza cinematografica di vita veneziana, ufficiale e quotidiana, in cui Carpaccio si è ricordato anche delle due fantesche in cuffia bianca che battono i tappeti e stendono guide al sole su di una terrazza quadrata (una sopraelevazione abusiva di un palazzo vista ponte di Rialto?).

Naturalmente avere un’idea valida per una mostra non significa sempre poterla concretizzare. Ė andata bene con i sei dipinti delle Storie della vita della Vergine perché due (Annunciazione e Morte della Vergine) già erano a Venezia alla Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro e un terzo (La Visitazione), in deposito demaniale al Museo Correr, nel 2000 è stato riunito intelligentemente ai primi due. Nel 1838, durante la dominazione austriaca su Venezia, i due primi dipinti vennero trasferiti come “preda” a Vienna, nella Galleria dell’Accademia, da dove rientrarono in Italia solo dopo la Prima Guerra Mondiale, dopo il 1918. Il quarto (Natività della Vergine) è arrivato dall’Accademia Carrara di Bergamo e gli ultimi due (Presentazione della Vergine al Tempio e Sposalizio della Vergine) da Milano, Pinacoteca di Brera. Questa disponibilità di Brera è stata inevitabilmente pagata dai Carpaccio delle “Storie di Santo Stefano” anche se esisteva un “dovere storico” (di cui i musei facilmente si dimenticano quando non è a loro vantaggio) di far tornare questi dipinti a Venezia, per una occasione “veramente unica” come osserva la soprintendente Nepi Scirè.

I quattro teleri della “Scuola di Santo Stefano” hanno avuto infatti vicende molto avventurose. Alla soppressione napoleonica della “Scuola” nel 1806 (come in generale dei conventi, confraternite, istituzioni ecclesiastiche), Eugenio di Beauharnais, viceré d’Italia, ne richiese due per la Pinacoteca di Brera: La disputa di Santo Stefano fra i dottori e La predica di Santo Stefano alle porte di Gerusalemme. Nel 1813 la Predica fu poi dirottata dallo stesso Napoleone al Louvre (uno dei suoi ultimi regali ai musei francesi). Gli altri due furono considerati di poca qualità e vendibili ai privati da Pietro Edwards, incaricato di censire e valutare le opere d’arte degli enti ecclesiastici soppressi. La consacrazione dei sette diaconi fu venduta ad un mercante, nel 1820 passò alla collezione inglese Solly e poi al Museo di Berlino dove si trova. La lapidazione di Santo Stefano fu assegnata in un primo tempo alle Gallerie dell’ Accademia, ma poi ceduta con altri dieci dipinti e soldi in pagamento della celebre collezione di disegni del pittore Giuseppe Bossi (fra cui alcuni splendidi di Leonardo). La tela fu poi acquistata dal re del Wurttenberg e data in deposito alla Galleria di Stoccarda dove è rimasta. Dei quattro dipinti solo due sono in mostra (quelli del Louvre e di Stoccarda), e i due mancanti sono stati sostituiti da riproduzioni al naturale (che vanno da 148 a 231 centimetri). Non ci sembra un’idea felice, proprio nel voler riprodurre le dimensioni degli originali anche se la soprintendente dice che “restituiscono la continuità della narrazione”.

Si sono citati quattro teleri, ma le fonti antiche parlano di un quinto, Santo Stefano condotto in giudizio, disperso negli anni di rapida decadenza della “Scuola”, dopo il 1773, anno dell’ultima citazione, e prima del 1807, quando non compare nel censimento di Edwards. Del quinto dipinto esiste al Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi (ed è in mostra) un disegno del Carpaccio di 22,8 per 27 centimetri, a carboncino, penna e pennello con inchiostro scuro su carta bianca parzialmente quadrettata. Un disegno molto particolareggiato che ci fa scoprire Carpaccio come “uno dei disegnatori veneziani più prolifici”, autore di “fogli di singolare bellezza”.

Ma chi era Carpaccio? Tranne il fatto che Vector Carpathio è la latinizzazione del vero cognome Scharpaza, del pittore ignoriamo quasi tutto nonostante i numerosi dipinti datati e firmati. Nonostante l’ imprimatur di Giorgio Vasari sulle Storie di Sant’Orsola e sui molti ritratti “di naturale… molto stimati”. Nonostante sia nominato pittore ufficiale della Repubblica. Ignoriamo la data di nascita a Venezia (intorno al 1460 o poco dopo perché raggiunse la piena maturità artistica nel 1490). La morte (in un documento del 26 giugno 1526 il figlio Pietro accenna alla morte del pittore che – afferma Giovanna Nepi Scirè- “non è comunque avvenuta dopo il 28 ottobre 1525” come è stato affermato per tempo immemorabile dalla critica). La formazione artistica (l’ipotesi più condivisa è quella di un apprendistato nella bottega belliniana, più di Giovanni che di Gentile). La composizione della bottega (che deve aver avuto perché non si possono affrontare da solo imprese, tecniche e di dimensioni, come le Storie in cui si colgono diversità di mani e cadute di qualità. Parecchi dipinti hanno rivelato alle riflettografie i punti dello spolvero che sono depositati da allievi su disegni e cartoni di un maestro. E gli infrarossi hanno trovato sotto le figure dipinte molte annotazioni sui colori che non possono non essere destinate ad esecutori).

Per la critica moderna Carpaccio è “un artista di grande raffinatezza ed autonomia”, che traduce la tradizionale pittura narrativa veneziana “in una propria originalissima visione”. Di grande cultura umanistica, “seguendo complessi e affascinanti percorsi allegorici”, con grande cura dei dettagli della moda e del costume, dei ricami e gioielli. Con gran “gusto per le scenografie e i cerimoniali, gli abiti sfarzosi”. E se questo richiama Pisanello, Carpaccio, “estremamente preparato” nella matematica, si esalta in “una spazialità ed una prospettiva” calcolate. Fin dal primo ciclo di Storie, quello di Sant’Orsola, “rivela le sue eccezionali capacità di narratore, le sue complesse ed originali ricerche prospettiche, organizzando le grandi scene corali addirittura con punti di vista diversi”. Ma Carpaccio non è solo un narratore di storie, la sua è una “sottile e progressiva trasformazione da cronista ad inventore di avvenimenti per arrivare alla ‘vera storia’, che non è quella realmente accaduta, ma quella che i veneziani desideravano vedere”. Della importante produzione di ritratti si ricorda “quel capolavoro assoluto” che è Il ritratto di cavaliere del Museo Thyssen-Bornemisza ora a Madrid. Esaltazione delle figure di Carpaccio “insieme ideali e reali”, “allo stesso tempo ritratti d’anima e simboli”.
Il ciclo delle Storie della vita della Vergine per la “Scuola degli Albanesi” è stato spesso considerato di qualità mediocre, con ampi interventi dei collaboratori, non confrontabile con l’altissimo livello delle precedenti Storie di Sant’Orsola e il contemporaneo ciclo di San Giorgio degli Schiavoni. In questo il Carpaccio è stato fortemente condizionato dalle ridotte dimensioni e dal formato quadrato delle tele tutte molto simili (126-130 per 130-140 centimetri). Per di più gli anni sono quelli attorno al 1504 dipinto sulla base del gradino dell’ Annunciazione e Carpaccio, oberato di lavori più importanti o più impegnativi, per committenti più esigenti e di maggiore disponibilità di ducati (per esempio la collaborazione con Giovanni Bellini per tre dipinti nella Sala del Maggior Consiglio della Repubblica), “ripropose disegni ed idee già usati in altre opere, ma l’interesse iconografico, le complesse soluzioni prospettiche, la raffinatezza dei dettagli, la profonda conoscenza della cultura fiamminga, rendono i teleri degni di studio e di interesse”. Senza dimenticare la grande vivacità dei colori che caratterizza l’intero ciclo. L’occasione eccezionale della riunione dei sei dipinti in questa mostra permette “sicuramente una nuova più corretta valutazione critica”. Non è stato ancora chiarito perché tutte le fonti antiche sembrano ignorare il ciclo fino alla fine del Settecento. Le sei tele dovevano in ogni caso fare un grande effetto disposte come erano tutte su di un’unica parete e con la luce da sinistra. Il tema del ciclo era stato scelto perché la Madonna di Scutari era la protettrice dell’Albania, ma non fin al punto di proteggere il sodalizio dalla rovina finanziaria. Nel settembre 1780 il Consiglio dei Dieci assegnava l’edificio alla “Scuola dei Pistori” (panettieri) a sua volta soppressa nel marzo 1808 per decreto napoleonico con dispersione dei dipinti diventati demaniali e valutati di prima classe come riconoscimento della loro qualità.

Anche La nascita di Maria, dipinta negli anni dell’ Annunciazione, era destinata alla Pinacoteca di Brera, ma venne requisita da Eugenio di Beauharnais che la mise sul mercato. Dopo vari passaggi, nel 1866 è arrivata per donazione all’Accademia Carrara di Bergamo. Ė considerata la meglio riuscita del ciclo, forse quella che è servita al Carpaccio per ottenere la commissione. L’ambiente è quello di una normale abitazione veneziana del Quattrocento dalle funzioni e dalle scene assolutamente di taglio quotidiano “comprensibile alla lettura dell’uomo comune rendendolo capace di avvicinarsi al fatto sacro che riconosce come parte del suo mondo”. Un grande camino acceso, la cucina, una donna che preparare un animale. Commenta Adriana Augusti: sono oggetti descritti con grande attenzione, dal bellissimo tappeto in primo piano sulla balaustra, ai contenitori e ai barattoli sulla mensola, “limpidi esempi di natura morta ante litteram, indicano chiaramente l’attenzione da parte di Carpaccio per la pittura fiamminga”. Di difficile interpretazione i riferimenti iconografici alla Vergine come i due conigli che rosicchiano una foglia di cavolo. La scritta a destra (Victor Carpatius.V Facebat) è una aggiunta, forse ottocentesca.

La presentazione di Maria al tempio e lo Sposalizio della Vergine sono arrivati (e restati) a Brera nel 1808. Nel primo, Carpaccio dà una bella prova di “padronanza dello spazio e dei mezzi prospettici” con la “lucida se pur semplice impaginazione del racconto sacro e il respiro dell’ampia piazza il cui lato prossimo all’osservatore è occupato dalla scalinata cui ascende Maria”, una piccola cosa a confronto della mole del sacerdote che l’attende in cima. Nello scenario architettonico di Gerusalemme ha mescolato elementi orientali e occidentali. La possente torre con cupola richiama quella dell’orologio di piazza dei Signori a Padova, e nella statua equestre dorata posta sulla filiforme colonna a sinistra, è stato riconosciuto il Regisole di Pavia, perduto ma assai celebrato nel Medievo, raffigurante l’imperatore ostrogoto Teodorico. In primo piano sul bassorilievo sono raffigurate le fatiche di Ercole assurto ad eroe precristiano e il fanciullo sarebbe il popolo ebraico “ritenuto immaturo e ignorante dal pensiero antigiudaico”. L’antilope che tiene al guinzaglio “si riferisce alle qualità di Maria bambina e al suo destino vincolato alle usanze ebraiche e il coniglio bianco indica la sua fecondità senza peccato”.

Nello Sposalizio della Vergine (o Il miracolo della verga fiorita) Daniele Ferrara osserva che ci sono “elementi iconografici che arricchiscono i contenuti delle immagini con riferimenti eruditi e simbolici o che conferiscono particolari sfumature alla narrazione. Ciò potrebbe confermare l’autografia di Carpaccio o, quantomeno, il suo immediato controllo con una parte prevalente nell’esecuzione”. Qui prevale un Carpaccio dalla visione “cordiale ed affettuosa”, in sintonia con la Vergine e con un Giuseppe ancora frastornato dalla chiamata di Dio, raffigurato anziano e che sta per sposare la giovane Maria. L’interno del tempio di Gerusalemme, rivestito di marmi, le iscrizioni, le suppellettili, l’abito del sommo sacerdote sono resi nei dettagli. Giuseppe sale i pochi gradini dell’altare quasi in trance e porge il ramo di mandorlo fiorito, il segno divino che lo indica come sposo di Maria. Un angelo in una nuvola conferma la scelta divina. Maria vestita con vesti disadorne, non certo per un matrimonio, Giuseppe, i testimoni non si accorgono neppure del tumulto alle loro spalle dei candidati al matrimonio che spezzano le verghe sterili. Anche qui l’architettura ha uno stile che doveva essere familiare al pubblico e infatti ricorda la chiesa di Santa Maria dei Miracoli di Pietro Lombardo, vanto di Venezia.

I tre dipinti della Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro sono inaugurati dalla Annunciazione, un dipinto di grande vivacità per i colori accesi, brillanti, su cui predominano i toni verdi e rossi. La Vergine appare ancora sotto un breve portico aperto da una grande arcata, sulla soglia di una stanza da cui si intravede la semplice camera da letto. Il mantello di seta dell’Angelo è “scolpito da un colpo di luce”. Siamo in un giardino cintato da un alto muro, un giardino in primavera pieno di fiori e uccelli in movimento – osserva Adriana Augusti – che “traduce pittoricamente la citazione di san Bernardo: ‘Il fiore volle nascere da fiore nel fiore e nella stagione dei fiori”‘. Fiori e animali sottolineano la purezza originale della Madonna. Il giglio bianco col fiore centrale sbocciato indica la “nata senza peccato”, “allora uno degli attributi più contestati dalla Chiesa ufficiale, ma tollerato nell’iconografia religiosa”. Il garofano rosso, simbolo di matrimonio spirituale indica nella Vergine la sposa di Cristo, alla cui passione alludono, attraverso una complicata simbologia, anche i cardellini dalla testa rossa. La datazione “mccccciiii del mese dapril” che appare in basso alla fine della scritta dedicatoria,è ormai intesa, per motivi stilistici, come la data della singola opera e non dell’inizio o della conclusione del ciclo.

Nella Visitazione l’incontro di Maria con la cugina Elisabetta che di solito avviene sulla soglia di una casa, è stato collocato dal Carpaccio in uno spazio aperto. Alle loro spalle una loggia che ricorda le logge venete, un tempietto e un alto edificio, ma sono sul prato gli aspetti più interessanti, animali di pura fantasia o simboli iconografici. Dal restauro si è scoperto che sono stati dipinti sopra il prato, aggiunti dopo che il colore si era asciugato. Il più strano appare un pappagallo rosso, animale ricorrente in altri dipinti di Carpaccio che nel colore inconsueto che si rintraccia soltanto in pappagalli della Nuova Guinea, sconosciuta agli europei fino al 1527, pone alcuni interessanti quesiti. Secondo Adriana Augusti si potrebbe pensare che l’artista abbia creato un pappagallo rosso di fantasia, ma la ripetizione del particolare animale anche in contesti in cui la simbologia mariana è del tutto esclusa, potrebbe far pensare piuttosto ad un animale “nuovo” effettivamente visto (come la Chalcopsitta Cardinalis) arrivato a Venezia con esploratori che dall’Asia o dall’India potevano essere arrivati in Nuova Guinea e nelle isole Salomone prima delle date conosciute.

L’ultima tela del ciclo ad essere stata dipinta, La morte della Vergine in cui Carpaccio riprende la “Dormitio virginis” di tradizione bizantina, è probabilmente la più fiacca del ciclo, forse anche per l’intervento dei collaboratori almeno nelle figure secondarie. Per Adriana Augusti è chiara “la stanchezza dell’artista, la sua difficoltà a rinnovare il linguaggio aggiornandolo a contatto con le nuove personalità di Giorgione e del tardo Bellini. La gamma cromatica, che nelle altre tele del ciclo si era mantenuta su toni vivaci e brillanti, si attenua in note più spente, su cui prevalgono i bruni e i neri dei mantelli dei confratelli, della veste della Vergine e dell’apostolo in primo piano di spalle, e dove spicca quasi a contrasto il bianco della veste di uno degli apostoli centrali”. Anche nelle opere più tarde, Carpaccio rimane fedele “al calibrato rigore della prospettiva geometrica, ad una spazialità sicura e misurata, al colore certo e delineato”, rifiutando fino all’ultimo “di adeguarsi ai tempi mutati, a linguaggi ormai troppo diversi dal suo”.
Le Storie della vita di Santo Stefano, il diacono processato e fatto lapidare dagli israeliti con l’accusa di avere bestemmiato contro Mosè e contro Dio, furono dipinte da Carpaccio fra il 1511 e il ’20 in due momenti di una diffusa campagna (persecuzione) antiebraica fomentata dai francescani e da alcuni patrizi veneziani che porterà poi alla costruzione del Ghetto Novo. La predica di Santo Stefano alle porte di Gerusalemme , una tela di 148 per 194 centimetri dipinta forse nel 1514, viene considerata dal punto di vista stilistico – come osserva Sandra Rossi – “il quadro migliore del ciclo, ove Carpaccio crea nitide forme dai colori luminosi e dialoga strettamente con la pittura di Cima da Conegliano”. Ed è anche la copertina della mostra. Il pittore riutilizza cartoni: per esempio il Tempio di Salomone era già presente nel ciclo di Sant’Orsola, in una ambientazione del tutto diversa. Le recenti indagini all’infrarosso hanno rivelato che il disegno preparatorio è accurato nei volti e nelle mani, più sommario nel paesaggio, nelle architetture e nei drappeggi degli abiti. Non ci sono pentimenti a conferma di una avanzata elaborazione con i disegni e una attenta progettazione della composizione. Curiosamente, le indagini scientifiche hanno rivelato sotto i personaggi ben 35 indicazioni sui colori con i quali completare le figure. Lo stato di conservazione è buono, ad eccezione per alcune cadute di colore nella parte inferiore. Sono visibili varie cuciture originali della tela.

Carpaccio è un viaggiatore immaginario che si ispira soprattutto alle illustrazioni delle opere a stampa. Anche qui la sua è una immagine fantasiosa di Gerusalemme in cui convivono armoniosamente mondo orientale ed occidentale: cupole emisferiche, minareti con mezzelune, l’arco di Traiano ad Ancona, rilievi decisamente veneti sullo sfondo. Stefano, in posizione decentrata, parla in piedi su di un piedistallo classicheggiante da cui probabilmente è stato fatto crollare una statua di divinità. Fra gli ascoltatori spicca il gruppo centrale delle cinque donne, sedute per terra, fra cui una velata che dovrebbe essere il simbolo della “cecità ebraica”. Fra gli uomini in ricchi abiti, un personaggio (un anziano barbuto con un copricapo) torna frequentemente nei teleri di Carpaccio. In secondo piano si nota un occidentale, di profilo, che sembra un ritratto perché anche nelle Storie il pittore continua ad essere ritrattista.

La lapidazione (149 per 170 centimetri) è l’ultimo telero del ciclo dipinto nel 1520 come si legge nel cartellino al centro in basso, “victor / carpa… / mdxx”. Stefano, in secondo piano, è caduto in ginocchio sotto le pietre che lo hanno colpito e stanno per colpirlo. Seduto in basso, a sinistra, è Saulo che non ha ancora imboccato la via di Damasco e sta custodendo i mantelli dei lapidatori. Sullo sfondo Gerusalemme appare circondata da mura come “chiusa nel rifiuto del messaggio cristiano”, il paesaggio si direbbe più nordico, meno armonioso del solito. Anche qui sono riutilizzati cartoni conservati addirittura a distanza “di qualche decennio” (il che presuppone una bottega molto ben organizzata) come i cavalieri in corsa sfrenata già dipinti nella Gloria di Sant’Orsola. L’opera è da ritenersi sostanzialmente autografa e le riflettografie sembrano confermare un limitato intervento della bottega (non ci sono le indicazioni dei colori delle vesti).
Come in altri dipinti della maturità, nella Lapidazione viene sottolineato in genere un “impoverimento dell’ideazione come della fattura stilistica”. Bisogna anche considerare che sono passati quasi dieci anni dalla tavolozza chiara e brillante del primo dipinto del ciclo e i toni bruni e terrosi usati quasi esclusivamente possono essere in sintonia con la drammaticità del tema.

Notizie utili – Carpaccio pittore di storie. Dal 27 novembre al 13 marzo 2005. Venezia. Gallerie dell’Accademia. A cura della soprintendenza speciale per il polo museale veneziano diretta da Giovanna Nepi Scirè. La mostra e il catalogo (Marsilio) sono dedicati alla storica dell’arte americana scomparsa Rona Goffen, grande appassionata della cultura artistica veneziana. Introduzione Nepi Scirè. Contributi di Adriana Augusti, Linda Borean, Luca Caburlotto, Claudia Cremonini, Maria Cristina Dossi, Daniele Ferrara, Stefania Mason, Sandra Rossi.

Orari: lunedì 8,15-14; da martedì a domenica 8,15-19.15. La biglietteria chiude un’ora prima.