mappa di costantinopoli

Lo spazio della Sapienza. Santa Sofia ad Istanbul a Rimini, Castel Sismondo

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Capolavori in mostra

Rimini 17 agosto 2007. Ai capolavori d’arte bizantina presenti in mostra – accuratamente selezionati tra una possibilità di proposte numericamente limitate: gli oggetti d’arte di fattura sicuramente costantinopolitana custoditi nei musei italiani non sono tantissimi, mentre abbondano quelli di manifattura d’ambito bizantino, spesso realizzati in centri dell’Italia meridionale, in Campania e Sicilia, ad esempio – è affidato il compito di suggellare quanto l’apparato fotografico e le proiezioni appositamente realizzate vanno a suggerire ed evocare del “momento” e dell’atmosfera sacrale di Santa Sofia.

L’oggetto, ad uso liturgico, si propone quindi come co-protagonista sul palcoscenico straordinario della “Chiesa grande” costantinopolitana: riafferma con potenza il motivo originario della fondazione, il culto divino, evoca l’avvicendarsi e le imprese dei protagonisti della storia dell’impero romano d’Oriente – da Giustiniano all’ultimo imperatore bizantino Costantino XI Paleologo – ; manifesta gli ideali di bellezza, potenza e forza propri del mondo bizantino, erede dell’antica Roma; documenta la straordinaria abilità raggiunta dagli artigiani-artisti, attivi nelle botteghe prossime al Palazzo Imperiale sul Bosforo.

Spetta al Ciborio di Anastasia del Tesoro di San Marco a Venezia, il ruolo evocativo per eccellenza, nel nostro caso: quello di esemplificare l’architettura religiosa cristiana dei primi secoli. Il piccolo, prezioso monumento marmoreo di VI secolo, destinato probabilmente a custodire insigni reliquie o una pisside, rimanda non solo alle costruzioni architettoniche poste a protezione e a solennizzare l’altare delle prime chiese – appunto il ciborio -, ma alla forma a pianta centrale, in questo caso quadrata, tipica di molti edifici di culto dell’epoca.

Sulle quattro colonne di cui consta il baldacchino si posa la cupola, una sorta di vela quadrata gonfiata dal vento, o un lembo di cielo sceso in terra a custodire, col dovuto riguardo, forse una pisside eucaristica che vi trovava accoglienza. La cupoletta, armonica nelle proporzioni, rimanda alla maestosità dell’amplissimo “cielo” voluto da Giustiniano per la sua Hagia Sophia; un “cielo” luminoso, dalle molte finestrelle da cui passa la luce solare o quella della luna, rimbalzando negli specchi dorati dei mosaici che, allora, dovevano ricoprire per intero le pareti tutte dell’aula sacra, multiforme, dai mille anfratti ed aperture, a costituire un gioco complesso quanto altri mai, di un fascino senza pari. Qui la luce regnava sovrana, trasmessa dai molti ceri accesi durante le solenni liturgie e dalle lampade ad olio pendenti dalle volte e dagli archi. Ed è simbolico rimando al prezioso, fondamentale ruolo della luce nell’architettura come nell’estetica bizantina la presenza della Lampada ad olio, oggi a Venezia, rarissimo esempio del genere, dovuta a maestri vetrai ed argentieri operanti sul Corno d’Oro nell’XI secolo.

Alla Divina Liturgia celebrata dai Patriarchi bizantini nella chiesa imperiale si riferiscono più direttamente preziosissimi calici e patene. E’ il caso dei due calici marciani, l’uno in porfido e l’altro in serpentino, destinati a contenere il vino consacrato. Realizzati entrambi in materiale simbolicamente relato alla dignità regale, presentano aspetti di singolare unicità: è il caso, ad esempio del Calice in serpentino, unico nel suo genere, dall’architettura polilobata e con una splendida serie di bassorilievi eseguiti per incisione, rappresentanti Cristo in trono e la Vergine Orante assieme ad altri santi. Le anse, a forma di fiere, rimandano ad influenze orientali proprie di culture prossime all’area costantinopolitana e all’eterno scambio di dare-avere proprio di popoli confinanti. Ma, forse, non vi è oggetto al mondo di età bizantina pari per bellezza e suntuosa semplicità alla Patena di alabastro proveniente sempre dal Tesoro Marciano, giunta verosimilmente a Venezia in seguito alla IV crociata del 1204. La patena, di ben 34 cm di diametro, era utilizzata per la consacrazione del pane nelle liturgia eucaristica.

La nostra, finissima nell’esecuzione, ha forma di fiore a sei petali, con il centro costituito da un preziosissimo smalto raffigurante il Cristo benedicente. La cornice, realizzata in argento dorato, reca gemme in cristallo di rocca colorate tramite un’apposita lamina metallica posta al di sotto dei castoni. L’opera, vero capolavoro dell’oreficeria costantinopolitana, si deve con sicurezza ad un’officina bizantina di sec. XI.

Sempre a contenitore del pane benedetto è poi il Panagiario del Museo Civico di Bologna, recante un’arma cardinalizia non altrimenti identificata, ma legato verosimilmente alla committenza del Cardinale Bessarione, già arcivescovo di Nicea, e realizzato a Costantinopoli negli anni immediatamente precedenti la caduta della città in mano ottomana (1453). Il panagiario consta di due valve, dall’interno splendidamente dipinto: l’una valva presenta la Vergine Orante e il Bambino, mentre l’altra riporta la raffigurazione della Trinità, secondo l’iconografia orientale, quella relata al misterioso incontro di Abramo con i tre Angeli alle querce di Mamre, riportata nell’Antico Testamento.

Vi compare la figura di Sara, moglie di Abramo, nell’intendo di servire i tre Esseri divini.
Al culto dei santi, di fondamentale importanza per la liturgia orientale e la devozione popolare – devozione che portò alla grave crisi iconoclasta tra VIII e IX secolo – sono riferiti altri splendidi manufatti, come la celebre Capsella vaticana, reliquiario d’argento di fattura costantinopolitana datato al VI secolo, conservata per secoli e secoli nell’esclusiva cappella palatina del Patriarchio Lateranense, antica residenza dei pontefici romani prima dell’attuale sede vaticana, cui accedevano solamente i papi. Qui, all’interno della cappella denominata Sancta Sanctorum, erano custodite le più insigni reliquie della primitiva cristianità, tra cui il Mandilion, o Volto Santo, di cui alcune oggi sono esposte ai Musei Vaticani. Il nostro cofanetto, in lamina d’argento lavorata a sbalzo, si deve ad una bottega attiva durante il regno dell’imperatore Eraclio (610-641) ed è decorato sul coperchio da una grande croce gemmata affiancata da due angeli, mentre i lati della cassetta presentano busti di alcuni apostoli entro clipei. Capselle come queste erano destinate a contenere importanti reliquie, strettamente connesse non solo con il culto, ma con la consacrazione stessa dell’edificio ecclesiastico, che poteva avvenire solo in presenza di dette reliquie in esso conservate.

Al milite Teodoro, santo soldato tra i più venerati della chiesa d’Oriente, si riferisce invece la preziosa icona a micro mosaico dei Musei Vaticani, opera di alta qualità realizzata con la tecnica dell’opus vermiculatum di età classica, cioè con piccolissime tessere di paste vitree o metalliche (d’oro e d’argento) fissate su un fondo di cera supportato da una tavoletta di legno. Opera databile intorno alla metà del XIV secolo, l’icona è probabilmente di commissione imperiale – come altre icone del genere – , prezioso dono offerto verosimilmente a un pontefice romano da uno imperatore bizantino. Il santo, Teodoro, è tra quelli più venerati a Bisanzio, insieme con Demetrio e Giorgio, anch’essi militari, particolarmente invocati a difesa della città e dell’impero nelle frequenti minacce subite dallo stesso, proprio nell’epoca della realizzazione di questo piccolo, grande capolavoro.

Altra immagine di santo orientale, stavolta medico, è quella di san Pantalemone, martire del IV secolo, raffigurato su una placchetta di steatite (una pietra morbida di colore verdognolo, atta alla realizzazione di cammei e piccoli rilievi) al centro dell’icona dei Musei Vaticani, databile alla metà del XII secolo ca. L’icona, tavola centrale di un trittichetto portatile, comprende altre piccole placche della medesima pietra raffiguranti storie della vita del santo e, in alto, la scena della Deesis, con il Pantocratore al centro, affiancato da due angeli con simboli eucaristici orientali, e, più sotto, dalle figure a mezzobusto della Vergine e di S. Giovanni. L’insieme reca evidenti tracce di pittura, forse del secolo successivo, tra cui una Annunciazione in alto, ed è forse un “ensamble” di rilievi costantinopolitani successivamente montanti in un’unica cornice.

Oltre alle immagini dei santi, realizzate per lo più a mosaico sulle pareti di Santa Sofia o fissate nelle icone lignee non più superstiti, l’apparato decorativo principale doveva riportare, come d’uso, storie tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, ad illustrare, ripercorrendolo, l’intervento provvidenziale della misericordia di Dio per l’uomo, fino all’incarnazione del Cristo, alle Sue vicende terrene e alla Sua risurrezione. Perdute o ancora celate sotto mani di calce le scene di questo tipo, la mostra ci permette di contemplare episodi delle medesime tramite una serie strepitosa di oggetti in avorio, quali il Cofanetto del Museo di Palazzo di Venezia, del secolo IX o X, poco noto ai più, forse celebrativo delle nozze di una non identificata coppia imperiale, raffigurata al centro del coperchio nel mentre viene incoronata simbolicamente dalle stesse mani di Cristo, mentre i fianchi del coperchio e della cassa del cofanetto riportano scene dalle Storia di Davide, capostipite della genealogia del Cristo.

Alla Storia di Aronne è poi riferita una bellissima lastra eburnea del Museo Civico di Bologna, dalle elegantissime figure intagliate nel prezioso materiale, mentre la vicenda terrena di Cristo trova anzitutto spazio nella tavoletta, forse da una coperta di evangeliario o parte centrale di un trittico, di secolo X, dei Musei Vaticani: vi è raffigurata la Natività, secondo iconografia bizantina, con la Vergine sdraiata sul letto del parto al centro del riquadro, insieme con la scena del “Bagno del Bambino”, tratta dai Vangeli apocrifi, e l’ “Adorazione dei pastori”.

Alla vicenda terrena di Cristo è poi dedicata la tavola d’avorio del Museo Nazionale di Ravenna, databile intorno al secolo XII, recante al centro la “Deposizione dalla croce”, tipica iconografia orientale. Le vicende della vita di Cristo, culminanti nel momento della morte in croce del Redentore, sono affidate anche a preziosi encolpi, o croci con funzioni di reliquario, tra cui preziosissimo è l’Encolpio a smalti vaticano, tra i primi esempi della raffinata tecnica bizantina dello smalto cloisonné, databile tra XI-X secolo. Su un supporto di bronzo dorato, la croce reca alveoli destinati ad accogliere lo smalto policromo con sui sono realizzate le parti figurative: il Cristo barbato e benedicente al centro della faccia principale, contornato da quattro clipei con la Vergine e S. Giovanni Battista ai lati e i busti dei ss. Sergio e Paolo posti sul braccio verticale della crocetta. Sul retro si ripetono le immagini centrali, a formare la Deesis bizantina, mentre i restanti due clipei sono occupati forse da volti di angeli. Meno prezioso nella scelta del materiale – bronzo dorato e niello – ma non meno pregevole artisticamente per la squisita fattura è l’ Encolpio ora a Venezia, della medesima epoca del precedente, con le raffigurazioni del Cristo trionfante sulla croce, ricoperto dalla solenne veste cerimoniale, il colobio, e della Vergine con il Bambino.

Ad una celebre icona a micromosaico spetta documentare una delle più note iconografie orientali, quella del Cristo Passo, o Imago Pietatis. La figura a mezzo busto del Redentore, il capo reclinato e le mani forate dai chiodi giunte all’altezza del ventre, il costato ferito, si diffonde in ambito mediteranno a partire dal Duecento, per diventare soggetto tra i protagonisti dell’arte bizantino-veneziana ben oltre il Trecento. Il nostro preziosissimo quadretto, realizzato con tessere minute, è oggi incastonato all’interno di un reliquiario ligneo tripartito, detto di San Gregorio Magno, ed è custodito nel Tesoro della Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, fabbrica eretta in origine dall’imperatrice Elena, madre di Costantino, quale insigne custode delle reliquie della Passione di Cristo. Nella sua forma attuale il reliquiario è una sorta di altarolo ligneo di impronta neoclassica, mentre l’icona bizantina risale probabilmente ai primi decenni del secolo XIV ed è forse originaria del monastero di Santa Caterina al Sinai, come attesterebbero un’icona dipinta sul retro del reliquiario, di produzione bizantina e riproducente la giovane martire alessandrina, e gli smalti posti sulla cornice dell’Imago Pietatis, riferiti dalla critica a Raimondello II del Balzo.

L’immagine del Cristo Pantocratore, superstite in alcuni splendidi episodi musivi in Santa Sofia, è poi documentata da un preziosissimo quanto poco noto capolavoro: si tratta dell’icona con il Cristo Benedicente del Museo del Bargello di Firenze, eccezionalmente prestata alla mostra riminese, già appartenuta a Lorenzo il Magnifico, come quadro di devozione posto nella camera da letto del signore di Firenze. La grande icona a fondo d’oro, databile circa alla metà del secolo XI, realizzata nella suntuosa quanto complessa tecnica del mosaico a tessere minute su cera, celebra Cristo signore del mondo e creatore dell’universo, nel mentre benedice con la destra, le dita giunte nella particolare iconologia della benedizione bizantina. E’ assai probabile che una tale immagine trovasse posto centrale nell’abside originale di Santa Sofia, quale immagine simbolo della Sapienza Divina che tutto conosce e crea.

Altra creazione figurativa centrale dell’intero patrimonio artistico bizantino è la Deesis, la “grande preghiera”, in cui trovano posto, al centro, il Cristo in trono benedicente, affiancato dalla Vergine e da S. Giovanni Battista ritratti in piedi, le braccia e le mani tese verso il Redentore nel gesto della supplica a favore dell’umanità. Supersite, se pur frammentaria, nell’arredo musivo di Santa Sofia, l’invenzione figurativa bizantina in mostra è documentata da uno dei massimi raggiungimenti di quell’arte, oggi conservato nei Musei Vaticani. Si tratta del Trittico in avorio, già policromo in alcune sue parti e decorato di gemme e perle, datato agli inizi del secolo XI, presente nelle collezioni vaticane grazie a papa Benedetto XIV (1740-1758) che lo acquistò a Todi presso un privato. Il trittico, decorato su tutti i sui lati, era un altarolo per la devozione privata. Aperto, presenta sulla tavola centrale la maestosa Deesis descritta qui sopra, mentre il registro inferiore della stessa formella è occupato da slanciate, elegantissime figure di santi. Analoghe raffigurazioni occupano gli sportelli laterali del trittico, sia sul fronte che sul verso, mentre sulla faccia posteriore della tavola centrale è rappresentata una stupenda croce gemmata tra intrecci vitinei.

Da ultimo, e quasi in chiusura del percorso espositivo, all’immagine della Vergine in trono del catino absidale di Santa Sofia, solenne nell’impostazione quanto potente nello sfolgorio del cielo d’oro, fa riscontro un altro capolavoro dell’arte del mosaico a tessere minute, l’icona della Vergine col Bambino, dal Tesoro della Basilica della Salute a Venezia, databile alla fine del XIII secolo. E’, la nostra, un’immagine più intima della Vergine, ritratta nella tipologia detta Glykophilousa, rivolta affettuosamente verso il Bambino che tiene in braccio, la destra benedicente. La tipologia della Vergine è anche quella della Madre di Dio Elousa, cioè Misericordiosa, come stanno ad indicare le lettere greche sul fondo dell’icona, già a tessere d’argento, di cui molte scomparse. Il prezioso oggetto, donato da Matteo Bon nel XVII secolo al santuario di Santa Maria della Salute, era un’icona da viaggio, per la devozione privata, realizzata anch’essa presso laboratori altamente La formella poteva anche costituire la parte centrale di un tritticoqualificati, attivi per la committenza imperiale e per la corte.

Santa Sofia a Costantinopoli

Nota storica

Santa Sofia di Costantinopoli costituisce la principale impresa religiosa dell’imperatore Giustiniano (483-565). La basilica giustinianea si sovrappose ad un altro edificio: già nel 326, prima della consacrazione di Costantinopoli, avvenuta l’11 maggio 330, l’imperatore Costantino (306-337) aveva fatto erigere una chiesa dedicata alla Divina Sapienza (“Haghia Sophia”) in luoghi già occupati da templi pagani dell’antica Bisanzio, la colonia greca distrutta dall’imperatore Settimio Severo (193-211) nel 196. La primitiva fabbrica ebbe interruzioni e ripensamenti e la chiesa fu inaugurata, più piccola rispetto al progetto originale, dal figlio di Costantino, Costanzo II (337-361), il 15 febbraio 360.

Nel 404 scoppiò una delle frequenti rivolte cittadine che caratterizzano la storia di Costantinopoli: l’imperatrice Eudossia, moglie di Arcadio (395-408), nel tentativo di imporre il potere imperiale anche sulla chiesa di Costantinopoli, una delle più importanti della cristianità, rimosse l’energico patriarca Giovanni Crisostomo, provocando la reazione popolare. Durante la sommossa la chiesa, cappella palatina, fu data alle fiamme.

Nel 415 l’imperatore Teodosio II (408-450), figlio di Eudossia, inaugurò una nuova chiesa, che probabilmente ricalcava la fabbrica precedente e che resistette per oltre un secolo, fino al 532. Il governo dell’imperatore Giustiniano stava attraversando allora una profonda crisi per l’esorbitante imposizione fiscale esercitata sui sudditi e per l’incertezza di alcune imprese militari. Durante una sessione di giochi all’ippodromo, approfittando della presenza della famiglia imperiale, dagli spalti si levò un grido “Nika”, che vuol dire “Vittoria” (da cui il nome della rivolta), ed ebbe inizio la sommossa diretta specialmente contro la cittadella imperiale, messa a ferro e fuoco come gran parte della città, compresa la chiesa di Santa Sofia, che fu data alle fiamme. La rivolta, durata dall’11 al 16 gennaio, fu soffocata nel sangue grazie all’energico intervento dell’imperatrice Teodora, ma il quartiere imperiale era distrutto.

Giustiniano ne approfittò per ricostruire ex novo il suo palazzo e gran parte di Costantinopoli ad immagine del proprio potere, inclusa Santa Sofia. Volendo farne la chiesa più importante della cristianità, Giustiniano fece realizzare un edificio grandioso in ogni aspetto: a partire dal 29 febbraio 532, agli ordini degli architetti Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto, diecimila operai ai comandi di cento capomastri realizzarono l’edificio con materiali provenienti da tutto l’Impero, in gran parte nuovi, come i mattoni, i pilastri, o l’argilla da Rodi per la realizzazione dell’enorme cupola; e in parte frutto di apposite spoliazioni, sia a simboleggiare la continuità e il confronto con l’arte degli antichi e degli imperatori precedenti,sia per sopravvenire alle ingentissime spese. Furono prelevati, tra l’altro, marmi, colonne, rivestimenti dai principali monumenti di Efeso, di Atene e Delo, così come dal tempio di Osiride in Egitto. La nuova, grandiosa chiesa fu solennemente inaugurata il 26 dicembre 537, e i festeggiamenti offerti alla città si protrassero per oltre due settimane.

La costruzione era grandiosa quanto ardita e ben presto si manifestarono problemi strutturali che culminarono, nel maggio 558, con il crollo di una parte della cupola, durante lavori di riparazione causati da un terremoto nell’anno precedente. Giustiniano, più al potere che mai per le vittorie riportate in Africa, Italia e Spagna, avviò immediatamente i lavori per il ripristino delle parti crollate e per il consolidamento generale della struttura. La fabbrica venne affidata a Isidoro di Mileto il Giovane che dovette riprogettare la cupola, diminuendone il diametro ma aumentandone l’altezza, per mantenerne l’imponenza. Dopo meno di quattro anni dall’inizio dei nuovi lavori, il 24 dicembre 562, Giustiniano poté nuovamente presiedere la solenne inaugurazione della sua basilica, un enorme edificio rettangolare di 77 metri per 71 con una cupola di 31 metri di diametro e 55 di altezza, con 107 colonne.

Sebbene ancor oggi la basilica si presenti a noi secondo il progetto realizzato nel VI secolo, la sua funzione di chiesa di palazzo e conseguentemente la sua posizione nei pressi del quartiere imperiale l’hanno resa oggetto di diversi interventi e protagonista dei momenti più significativi della vita della città e dell’impero.

La crisi progressiva dello stato bizantino, già durante il regno giustinianeo, si riflette nella scarsa manutenzione dedicata all’imponente fabbrica della chiesa: il momento di maggiore crisi giunse nel 986, quando la chiesa venne chiusa al culto perché la grande cupola minacciava di crollare. Santa Sofia rimase inaccessibile per oltre dieci anni.
Proprio in quegli anni l’imperatore Basilio II, detto il Bulgaroctono (976-1025), riportò una serie di importanti vittorie di vitale importanza per l’Impero d’Oriente. La grandezza militare e politica del sovrano si riflette nei suoi interventi nella chiesa palatina: l’enorme investimento per il risanamento dell’edificio, riferito dalle fonti, non si limitò alla riparazione e al consolidamento dei danni provocati dal tempo, ma portò anche al restauro e al rifacimento di parte della decorazione musiva, di cui rimane importante traccia nel mirabile mosaico con Costantino e Giustiniano offerenti Santa Sofia.

Per più motivi la chiesa attuale non riflette che in parte il progetto d’epoca giustinianea: i mosaici subirono danni gravissimi a motivo della crisi iconoclasta intercorsa tra il 725 e l’842; altri ne furono realizzati subito dopo, a partire dal regno di Michele III (842-867), a celebrazione della ritrovata libertà di venerazione delle immagini sacre. A testimonianza del profondo legame della basilica con la storia della città e dell’Impero, stanno ancora oggi diverse rappresentazioni legate ai momenti principali dell’impero bizantino. Ad esempio, il ritratto del patriarca Ignazio (in carica nell’847-858 e 867-877) con Giovanni Crisostomo, databile entro l’877, segna un momento di grande conflitto interno alla cristianità orientale e l’avvicinamento del patriarca al papato di Roma, contro la dinastia amoriana e il proprio candidato al patriarcato, Fozio. Le immagini di Leone VI (886-912) e Alessandro (912-913), postume, celebrano il breve momento di prosperità dell’Impero alla fine del IX secolo, prima che le crisi dinastiche e le sconfitte riportate da arabi e bulgari portassero a nuovi assedi e saccheggi.

I mosaici realizzati sotto Basilio II, già citati, celebrano il ringraziamento per la fine di tale crisi, coincidente con la massima espansione dell’Impero bizantino dopo quello di Giustiniano, e segnano una nuova ripresa anche culturale e religiosa, che culminerà con il regno di Costantino IX (1042-1055), ritratto in Santa Sofia con la “basilissa” Zoe (1028-1050); mentre il ritratto di Giovanni II Comneno (1118-1143) con la moglie Irene celebra uno degli ultimi grandi imperatori d’Oriente, conquistatore e letterato, protagonista della stagione culturale della rinascita bizantina; al suo entourage culturale pertiene anche la celebre “Deesis”., splendido mosaico, seppure danneggiato.

La chiesa, come la città, subì rovinosi saccheggi durante l’occupazione della IV crociata nel 1204, probabilmente voluta da Venezia e non a caso guidata dal doge Enrico Dandolo, poi sepolto nella stessa Santa Sofia nel 1205. L’edificio sacro, spogliato degli ornamenti marmorei e soprattutto di tutti i corredi e apparati d’oro e d’argento, fu retto dal clero veneziano incaricato di organizzare la chiesa del nuovo Impero Latino d’Oriente. Fu allora che si edificò un campanile di cui restano oggi pochi elementi architettonici. Tale fu la sorte di Santa Sofia fino al 1261, anno in cui Michele VIII Paleologo (1259-1282) restaurò l’impero bizantino, già inesorabilmente in decadenza, stretto tra l’avanzata dei turchi e dei popoli slavi dall’esterno, e da violente lotte all’interno.
Nonostante l’antico, prestigioso nome, tra XIII e XV secolo Costantinopoli fu capitale di uno stato geograficamente assai ridotto. La crisi si riflettè anche su S. Sofia che, gravemente danneggiata da un terremoto nel 1346, al tempo di Giovanni V (1341-1347), fu lasciata in abbandono dalla corte, incapace di sostenere gli oneri necessari per il suo completo ripristino. Così ce la escrivono un ambasciatore castigliano nel 1402 e un sacerdote russo già nel 1350.

In questo severo stato la trovò Maometto II (1451-1481), sultano dei Turchi Ottomani, quando il 29 maggio 1453 entrò in Costantinopoli. Egli diede ordine di trasformarla in moschea, cosi che nel tempo gli interni assunsero sempre più le caratteristiche dei luoghi di culto islamici, grazie alla realizzazioni di decorazioni ed elementi architettonici appositi, e soprattutto in seguito alla copertura dei mosaici e degli ornamenti bizantini.

I principali interventi subiti dall’edificio nel periodo ottomano sono visibili all’esterno: frutto degli interventi turchi sono infatti i massicci contrafforti che hanno progressivamente coperto l’edificio originale, le cucine e la fontana, soprattutto i quattro minareti che coronano la cupola, realizzati sotto Maometto II e Selim II (1566-1574), e la trasformazione dell’antico battistero, precedente la fabbrica giustinianea, a mausoleo per il sultano Mustafa I (1617-1623). Anche all’interno si ebbero sostanziali interventi, specie nella decorazione, con l’inserzione di mosaici aniconici e anche con l’installazione di antichi manufatti, come i grandi vasi marmorei ellenistici portati da Pergamo per ordine del sultano Murad III (1574-1595).
Dopo alcuni abbozzati restauri realizzati nel 1717 da Ahmed III (1703-1730), si deve al sultano Abdülmeçit (o Abd al-Megid, 1839-1861) l’avvio di un nuovo corso nei confronti del monumento. Nel 1847 questi avvia imponenti lavori di restauro dell’edificio, incluso il recupero della decorazione antica, soprattutto dei mosaici, affidando i lavori agli architetti ticinesi Gaspare e Giuseppe Fossati, che ci hanno lasciato un’ampia documentazione grafica della chiesa prima e dopo i lavori.

L’ultima importante svolta imposta alla storia dell’edificio è la sua musealizzazione, avvenuta nel 1935, ancora una volta in stretto rapporto con la storia della città, nell’ambito della laicizzazione dello stato e della cultura turca voluta da Atatürk (epiteto di Mustafa Kermal, primo presidente della Turchia repubblicana tra 1923 e 1938). La trasformazione di Santa Sofia da luogo di culto a monumento è un importante passaggio simbolico per il legame che questo luogo ha sempre mantenuto con il potere regnante nella città, ora chiamata definitivamente Istanbul. In occasione di questo passaggio, il governo turco affidò all’ “American Association of the Preservation of Byzantine Monuments” l’intero complesso. Missioni archeologiche statunitensi erano già presenti in Turchia dal 1926, con l’appoggio del governo locale, ed è con la finalità di gestire i grandi lavori di risanamento degli edifici bizantini ad Istanbul che si forma l’associazione, che opera nel recupero/restauro dei mosaici a Santa Sofia come in altri edifici sin dal 1931 e nelle indagini archeologiche di vari siti. Tali lavori a tutto campo proseguono ancora oggi.

La fortuna di Santa Sofia

La chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli per la sua grandiosità e la sua importanza è stata non solo oggetto di ammirazione per l’arditezza architettonica o per la preziosità delle decorazioni, ma anche modello di grande edificio cristiano, punto di riferimento per diverse imprese architettoniche. In età bizantina era la stessa corte imperiale a riproporre elementi già presenti in Santa Sofia: imprese come San Vitale a Ravenna, non a caso commissione imperiale d’epoca giustinianea, o Santa Sofia a Salonicco, voluta dall’imperatrice Irene forse nel 783, ma anche la chiesa di Santa Sofia a Benevento, opera longobarda dell’VIII secolo, rimandano in alcune parti e soprattutto nell’elevazione centrale della cupola all’opera costantinopolitana; così come alcune importanti strutture architettoniche databili tra VI e VII secolo dell’impero Persiano, grande rivale dell’impero romani d’Oriente.

Nel mondo bizantino la fama della “chiesa grande” fu assicurata non solo dalla commissione imperiale, ma anche dalla letteratura che l’edificio ha ispirato; Si pensi ad esempio ai poemi che Paolo Silenziario, dignitario di corte e grande poeta greco del VI secolo, ha dedicati alla rinnovata chiesa all’inizio del 563, in occasione delle solenni cerimonie per la sua inaugurazione dopo i restauri della cupola. Ne tramandano viva e stupita memoria Paolo Diacono, lo storico longobardo vissuto nell’VIII secolo, e altri testi altomedievali, mentre ne è ricca di citazioni la letteratura greca medievale, soprattutto nelle opere dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito, oltre a quelle dei principali autori della letteratura bizantina.

Anche in Occidente la fama di Santa Sofia fu sempre grande: accanto agli esempi concreti di grandi edifici della prima età cristiana, a Roma e Ravenna soprattutto, molti testi, databili intorno all’XI secolo – periodo iniziale dello scisma del 1054 – ricordano l’incomparabile opera architettonica. Nel XIII secolo, stante la ripresa dei rapporti tra l’Italia e Costantinopoli anche in campo culturale e artistico – con la profonda incidenza dell’arte bizantina del periodo comneno nell’arte italiana del tempo – non stupisce ritrovare una riproduzione schematica di Santa Sofia nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi, in cui Cimabue ha raffigurato San Luca, l’evangelista le cui reliquie erano conservate proprio nella grande basilica orientale.
La “megàle ekklesìa” giustinianea torna alla ribalta in Italia e in Europa nel XV secolo, imponendosi definitivamente come luogo simbolo per la cultura europea. All’inizio del Quattrocento la chiesa viene descritta dall’umanista Ciriaco d’Ancona nel corso del suo lungo viaggio in Grecia. È poi soprattutto con la realizzazione di disegni e ricostruzioni realizzati dai Sangallo che la chiesa di Santa Sofia diventa uno dei modelli della rinnovata arte italiana, assieme ai principali monumenti di Roma, sia antichi che cristiani.

Dopo la caduta di Costantinopoli in mano ottomana, nel 1453, la chiesa, trasformata in moschea e interdetta ai non musulmani, diventa un modello ideale conoscibile, soprattutto all’interno, quasi esclusivamente da testimonianze e disegni precedenti a quell’anno; il che contribuisce a fare di Santa Sofia un luogo sempre più ideale che reale, un punto di paragone per le fabbriche dell’età umanistica, come già si evince dalla documentazione dei progetti per la cattedrale di Pavia, iniziata nel 1488. A quel momento la chiesa di Giustiniano aveva ormai radicalmente mutato la sua destinazione: anche da moschea l’imponenza e la grandiosità degli esterni come degli interni ne fecero uno dei punti di riferimento dell’architettura sacra dell’impero Ottomano, e nella stessa Istanbul le moschee di Solimano, di metà XVI secolo, e la Moschea Blu, di inizio XVII, sono testimonianze evidenti dell’acquisizione dello schema architettonico di Santa Sofia.
In Occidente la fortuna di Santa Sofia si deve anche a Giovanni Bellini, artista veneziano della seconda metà del XV secolo. Questi completa alcuni dei suoi dipinti con palazzi e chiese di architettura fantastica, tra le quali non è difficile notare, soprattutto a partire dagli anni ’80, edifici a pianta quadrata con forti contrafforti di sostegno ad aumentarne l’imponenza.

Le frequentazioni romagnole di Giovanni, assieme al viaggio a Costantinopoli compiuto dal fratello e collega Gentile entro il 1480, portano il pittore ad elaborare una rappresentazione architettonica che avrà grandissima fortuna per la diffusione dell’immagine di Santa Sofia in età moderna. Il Bellini ci propone un modello di chiesa, come norme cubo sormontato da un’altrettanto enorme cupola:. è la visione rinascimentale di Santa Sofia, presente nelle fonti letterarie venete già all’inizio del XV secolo, come si evince ancora oggi nella sala del Maggior Consiglio di palazzo Ducale di Venezia, in una tela dipinta da Andrea Vicentino nel 1582.

L’eco europea di questa rivisitazione si coglie dalla sua riproduzione in Germania, esemplificata dalle incisioni del “Liber Chronicarum” di Hartmann Schedel, stampato a Norimberga nel 1493, e dai manoscritti ad opera dell’ambasciatore imperiale David von Sonneg, in visita a Istanbul attorno al 1575, in cui il modello è ormai stereotipato, anche se aggiornato coi minareti e probabilmente confrontato con l’architettura reale.

Una ulteriore, importante conferma della fama di Santa Sofia e della sua incidenza nella cultura moderna è data dal progetto di Francesco Borromini per Sant’Ivo alla Sapienza a Roma, fabbrica avviata nel 1642, in cui ancora una volta si notano i legami tradizionali tra Santa Sofia e la basilica ravennate di San Vitale, ritenuta copia fedele dell’ormai ex chiesa giustinianea. Anche la dedicazione dell’edificio borrominiano alla Divina Sapienza si addiceva perfettamente a tale scopo, essendo la fabbrica dell’Ateneo della Sapienza in Roma nelle intenzioni del committente e dell’architetto centrale per importanza nello studio scientifico e nella cultura europea.
Tale è nel XVII e XVIII secolo la fama e l’influenza di Santa Sofia: la crescente difficoltà di raggiungere la capitale dell’impero Ottomano al momento del suo apogeo, rendono la basilica un ricordo antiquario, in qualche modo avviato all’oblio quando il Neoclassicismo, grazie alle scoperte archeologiche dell’antichità classica, si impone sempre più come nuovo modello del bello e nuovo, assoluto riferimento culturale.

La “riscoperta” di Istanbul e dei suoi monumenti ha luogo verso la metà del XIX secolo, sia grazie al superamento del Neoclassicismo che alla crisi progressiva dell’impero Ottomano: Di grande importanza sarà l’opera dell’architetto Gaspare Fossati, chiamato dal sultanato a restaurare l’antico edificio nel 1847. Questi, al termine di due anni di intenso lavoro, avrà solo non ripristinato alcuni degli spazi e delle decorazioni originali, comprese ampie porzioni di mosaico, ma avrà realizzato una serie di incisioni, disegni ed acquerelli che diventeranno il tramite di una nuova fortuna di Santa Sofia e persino della nascita di un gusto “neobizantino” nella scultura, nell’arte figurativa e nell’architettura, così come i contemporanei studi sui mosaici del Salzenberg per conto degli Zar di Russia porteranno ad una nuova stagione dell’arte religiosa russa.

Infine, con la trasformazione della ex basilica cristiana e poi moschea a monumento nazionale, avvenuta nel 1935, Santa Sofia fu di nuovo sotto gli occhi di tutti e visitabile da chiunque.
Oggigiorno Santa Sofia non è solo un meta turistica d’eccellenza. La sua importanza artistica e culturale la rendono oggetto di studio da parte di storici, archeologi e storici dell’arte, ma anche di artisti e letterati che ricercano ancora, nell’interno dei suoi spazi senza pari, quella misteriosa, sacra Presenza per il quale è stata edificata. Così accadde nel 1923 al poeta inglese William Butler Yeats, quando ebbe a definirla “un edificio …. dove tutto raffigurava l’estasi”, ampliando poi l’intuizione poeticamente in “Byzantium”, nel 1930: “… una cupola accesa dalle stelle o dalla luna, disdegna / tutto ciò che l’uomo è, / tutte le complessità / la furia e il fango delle vene umane”. O, più recentemente, allo storico dell’arte Cesare Brandi quando, nel 1970, annota che Santa Sofia “è solo nel suo interno che veramente si rivela: ma quando si passa quella soglia, mai nella vita se n’è passata o se ne passerà l’eguale”.
Ancora oggi, a tanti secoli di distanza dalla sua fondazione e nonostante le varie vicende che l’hanno vista al centro di tanti mutamenti, è possibile cogliervi le medesime sensazioni e suggestioni, che nel tempo l’hanno confermata come simbolo della possibilità di unione tra potere, bellezza e spiritualità.

La decorazione musiva della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli

Nonostante il patrimonio figurativo bizantino sia andato in gran parte perduto soprattutto in seguito a tre gravi avvenimenti che hanno interessato, in epoche diverse, l’impero d’Oriente, ovvero l’epoca iconoclastica (726-843), l’occupazione latina di Costantinopoli (1204-1261) e la conquista ottomana, a partire dal 29 maggio 1453, la decorazione musiva della Grande Chiesa per eccellenza del mondo bizantino, Santa Sofia, si è in parte conservata. Si tratta del grandioso edificio fatto ricostruire da Giustiniano nello stesso luogo dove si erano avvicendate due fabbriche, la prima, consacrata nel 360, la seconda nel 415, in seguito alla distruzione dell’edificio originario a causa di un incendio, nel 404.

Anche questa basilica fu in gran parte distrutta da un incendio nel 532, nel corso della rivolta detta di Nika. Giustiniano, imperatore “cristianissimo” colse l’occasione per costruire un edificio grandioso che fosse il simbolo del suo potere, e della sua ortodossia, essendo salito al trono, nel 527, dopo due imperatori, Zenone (474-91), e Anastasio I (491-518), entrambi monofisiti: tale costruzione rientrava in un programma ambizioso che interessava innanzitutto la costruzione, e ricostruzione, dei più significativi edifici di culto della capitale sul Bosforo – p.e. la chiesa dei Santi Apostoli, pantheon degli imperatori di Bisanzio a partire dall’età costantiniana, fino al 1028 -, circa trentatré, in aggiunta ad alcuni celebri santuari di pellegrinaggio lontani dalla capitale, come per esempio quelli di San Giovanni ad Efeso in Asia, e di Santa Tecla a Meriamlik, in Cilicia. Il nuovo edificio segnò una svolta nell’architettura religiosa del VI sec.: seppure nelle regioni più orientali, in Cilicia, p.e., e in Siria, la basilica con cupola fosse già stata sperimentata, la grandiosità del progetto dell’edificio costantinopolitano non aveva eguali, tanto che rimase un àpax, e fu imitato solo da alcune fra le più importanti moschee costruite a Istanbul dopo il 1453 ma, in ogni caso, determinò la diffusione, in tutto il mondo bizantino, dell’impianto cupolato, seppure di dimensioni più modeste.

Inoltre, per la prima volta, almeno su scala monumentale, fu adottato il pennacchio a superficie a quarto di sfera, che agevolava il passaggio diretto dal quadrato di base al cerchio della cupola, secondo una tipologia in parte d’origine sassanide, forse filtrata dalla cultura architettonica armena. La concezione tardoantica in materia di edifici registrava una concentrazione di materiali raffinati, quali marmi pregiati, mosaici parietali, argento, bronzi, all’interno dell’edificio, mentre l’esterno rimaneva sobrio, e così avvenne per Santa Sofia. Il mosaico parietale, dunque, ricopriva tutte le parti dell’edificio e, in un raffinato giuoco di rispondenze luminose, gareggiava con i bronzi, i marmi e i rivestimenti argentei della recinzione presbiteriale e del monumentale ambone, descritti nella celebre ekphrasis di Paolo Silenziarlo, ma anche con la luce artificiale – a cominciare dal grande lampadario circolare sospeso al centro della cupola – che illuminava gli spazi e interagiva con la luce naturale che entrava a fiotti dalle grandi finestre. Si ricordi che tali mosaici erano stati ricoperti di scialbo da Gaspare Fossati, verso la metà dell’800, e scoperti in seguito agli interventi di restauro eseguiti a partire dagli anni ’30 dall’Istituto Bizantino Americano.

Com’è noto, il programma decorativo della basilica al tempo di Giustiniano era rigorosamente non figurativo, almeno per quanto riguarda la decorazione parietale e quella dell’abside: le immagini, come al Laterano in epoca costantiniana, erano scivolate sull’epistilio della recinzione del bema, secondo un sistema che registra la compresenza di un registro simbolico e di quello figurativo e che si riscontra in numerosi casi anche in Occidente in epoca paleocristiana. Va subito ricordato che, in corso di costruzione, quando la decorazione era in parte già stata eseguita, arcate e timpani crollarono il 7 maggio 558: dopo questa data, ed entro il 562, quando la chiesa fu ridedicata, si colloca la seconda fase decorativa, connotata da lievi differenze tecniche anche per l’utilizzo delle rare tessere d’argento. Nell’abside era probabilmente campita una croce, che risaltava su un fondo oro uniforme, e scintillante, ovvero l’icona dei Monofisiti, come lo sarà poi degli Iconoclasti, mentre sulle volte e sulle pareti dell’edificio un repertorio simbolico e decorativo, che comprendeva, in aggiunta alle croci, ai girali, a motivi geometrici, anche forme mistilinee in parte desunte dalle stoffe sassanidi, si adeguava, e agevolava, per così dire, il movimento delle volte e degli spazi frammentati e concavi, atti ad accogliere questi decori.

La scelta di un sistema non figurativo è probabilmente da imputarsi al ruolo di Teodora, monofisita: i Monofisiti, com’è noto, non ammettevano le immagini nell’edificio di culto, tanto da proibire anche la rappresentazione delle colombe argentee spesso sospese a ciborî e fonti battesimali. A tal proposito non è un caso se alcuni di questi decori presentino strette affinità con la decorazione musiva, rigorosamente aniconica, della chiesa di un celebre monastero del Tur Abdin (Mesopotamia settentrionale, oggi in Turchia del Sud-Est), quello di Mar Gabriel a Qartamin, che sorge in un’area ad alta densità monofisita: la decorazione musiva della chiesa monastica, degli inizi del VI sec., sembra legata, stando alle fonti siriache, alla committenza dell’imperatore Anastasio, monofisita anch’esso, come si è detto.

Del resto, circa la Grande Chiesa di Costantinopoli, che il progetto decorativo non prevedesse le immagini sembra indicato anche dal fatto che l’abside, e il catino innanzitutto, siano di modeste dimensioni, decisamente sproporzionati rispetto al grandioso edificio: inoltre, nel cilindro dell’abside stessa, ove di consueto si annidano ulteriori immagini, si aprono invece grandi finestre su due livelli, mentre un’altra fila di finestre, di minori dimensioni, forano il catino, in basso. Mi sembra dunque evidente che si tratta di spazi che in origine non dovevano ospitare immagini, tanto che più tardi, come si dirà, quando l’immagine irromperà in essi dovrà adattarsi e reinventarsi, separare due dei componenti dell’originario sintagma – la Vergine in trono con Bambino, dai due arcangeli.

Questo sistema decorativo, nel quale il fondo oro costituiva il filo prezioso che si dipanava in ogni parte dell’edificio, poneva in risalto ogni decoro, si rispecchiava nella luce naturale ed artificiale, in un tutt’uno con gli altri materiali preziosi utilizzati nella chiesa, e interagiva con gli spazi frammentati, contribuendo, inoltre, alla smaterializzazione delle pareti, funzione più tardi propria delle vetrate gotiche.

Dopo la fine del periodo iconoclasta e il conseguente ritorno delle immagini nell’edificio di culto – in quelli profani non era mai scomparsa -, il catino della Grande Chiesa della capitale sul Bosforo accolse la straordinaria immagine della Vergine in trono con Bambino: per motivi di spazio i due arcangeli che costituivano la guardia angelica della Vergine furono spostati sulle pareti laterali e, sempre per gli stessi motivi, come si è anticipato a proposito delle modeste dimensioni di questo significativo spazio, l’immagine vi sta compressa, incuneata fra le finestre, in basso, e la parte alta del catino stesso, in ragione del fatto che esso era stato concepito per accogliere una croce e non immagini.

La Vergine, segnata da uno sciolto fare pittorico, insieme con gli arcangeli, dovrebbe datarsi al periodo fra l’843 e l’847, al tempo dei “pii imperatori” Michele III e Basilio I – come recita la bella iscrizione musiva in ogivale maiuscola che corre sotto il catino -, oppure, a giudizio di alcuni studiosi, all’epoca successiva al concilio niceno II, ovvero dopo il 787, ed essere stata scialbata nel periodo del secondo iconoclasmo, agli inizi del IX sec.: il patriarca Fozio, però, in una omelia, descrive la Vergine con Bambino nell’abside come una Vergine stante e non assisa in trono, fatto che pone ulteriori problemi riguardo a questa significativa immagine. Va sottolineato che, in ambito soprattutto orientale, la Vergine con Bambino, a partire dal VI sec., occupa lo spazio gerarchicamente più significativo dell’edificio di culto, il catino: a Costantinopoli questa ubicazione privilegiata viene simbolicamente giustificata, ed esaltata, sulla base di un testo del patriarca Germano (715-30) in cui l’abside stessa simboleggia la grotta di Betlemme, dove nacque Cristo.

La figura della Theotokos nella capitale è anche particolarmente legata al patriarca Fozio, che scrisse inni in suo onore, e a cui si deve parte dell’elaborazione del programma iconografico della Grande Chiesa dopo l’epoca iconoclasta: la figura della Vergine, in specie in questa temperie storico-religiosa, va letta innanzitutto nella sua valenza di strumento dell’Incarnazione. Anche in seguito alla restituzione delle immagini, nella Santa Sofia le decorazioni musive che si susseguirono fino almeno al XIV sec., non faranno parte di cicli propriamente detti, bensì si tratta di immagini votive, o connotate in senso politico, soprattutto ritratti di imperatori campiti nelle gallerie settentrionale e meridionale, o ritratti di celebri padri della chiesa orientale posti nel timpano settentrionale, che non occupano ancora lo spazio del cilindro absidale, peculiarità dei programmi mediobizantini in ragione della loro connessione con la liturgia.

Nella lunetta del nartece interno è campito il celebre mosaico con Cristo seduto su un trono a lira, riccamente gemmato, con un imperatore in proskynesis ai suoi piedi: ai lati del Cristo si stagliano due clipei che accolgono le figure a mezzo busto della Vergine colta nell’atto dell’intercessione, a sinistra, e di un arcangelo a destra, forse l’arcangelo Gabriele: questa scelta parrebbe connettersi alla figura dell’imperatore Leone VI il Saggio (886-912), che va probabilmente identificato con l’imperatore in proskynesis il quale, allievo di Fozio, aveva egli steso composto un sermone per la Festa dell’Annunciazione. Inoltre, sempre in relazione alla figura dell’imperatore penitente, in questo spazio riservato fin dall’inizio a coloro che non avevano ancora ricevuto il battesimo, e ai penitenti appunto, si vorrebbe alludere alla vicenda personale di Leone VI, che si era sposato alcune volte, contro le leggi della chiesa bizantina. Credo che la postura della figura della Vergine, colta nell’atto dell’intercessione, si possa associare, in tal contesto, piuttosto che all’Annunciazione, alla vicenda umana di Leone VI or ora evocata.

Si ricordi, inoltre, che il prototipo dell’icona dell’Haghiosoritissa, la Vergine dell’Intercessione, fu elaborato nella chiesa della Chakoprateia, celebre santuario mariano che sorse, alla metà del V sec., presso Santa Sofia, e di cui si conservano ancora i resti. Si coglie anche, nell’ubicazione del mosaico sulla porta imperiale, una connotazione di tipo cerimoniale che riguarderebbe la solenne entrata dell’imperatore nella Grande Chiesa. Come in numerose opere bizantine, nel mosaico coesistono due correnti stilistiche, l’una ellenizzante, l’altra linearistica, ben stemperate l’una nell’altra. Sotto il profilo tecnico, è stato notato che le tessere auree sono sistemate nell’allettamento in filari perfettamente orizzontali, come nel mosaico della parete absidale della chiesa della Theotokos al Sinai con le due scene di Mosé. Di alcuni decenni più tardo, da collocare verso la fine del X sec., è il mosaico “storico” campito nella lunetta del vestibolo Sud, dove ancora una volta la Vergine Theotokos, protettrice di Costantinopoli, è protagonista, raffigurata assisa su un monumentale trono, al centro, fra le figure di due imperatori, Costantino, lo ktitor, a destra, che Le offre la città, e Giustiniano, a sinistra, con il modello di Santa Sofia nelle mani.

Le figure degli imperatori, dai corpi nascosti da sontuosi paludamenti, hanno volti percorsi da segni che li scavano profondamente, mentre quello della Vergine, di un bell’ovale, appare liscio e sereno: il suppedaneo posto in scorcio accentua il senso di profondità già indicato dal piano, che digrada in diverse tonalità di verde, su cui le figure di ambedue gli imperatori poggiano realisticamente i piedi. Nella Santa Sofia dunque, la Theotokos la si incontra ovunque, negli spazi concavi e in quelli piani, associata ad arcangeli, santi ed imperatori. Il ruolo di questi ultimi è quello del comprimario: si tratta soprattutto di figure imperiali cui è legata parte della storia, e della decorazione, dell’edificio stesso, di immagini, si diceva, essenzialmente votive, tratto, questo, specifico della Grande Chiesa della Nuova Roma sul Bosforo. In alcuni spazi, però, i programmi appaiono più rigorosi: mi riferisco al cosiddetto grande sekreton, un ambiente ubicato sopra il vestibolo Sud ed afferente al palazzo patriarcale, in cui sono state rinvenute, sia pure conservate parzialmente, alcune figure di santi e profeti, e una Deisis. Il programma iconografico e iconologico appare segnato da un deciso intento polemico nei riguardi del periodo iconoclasta poiché comprende alcuni patriarchi costantinopolitani avversari dell’Iconoclastia, Santo Stefano Iuniore, martirizzato in questo stesso periodo, e la figura di Costantino, oramai santificato dalla chiesa bizantina soprattutto per aver combattuto l’eresia ariana: l’iconoclastia era infatti associata alle eresie. Lo stretto collegamento fra la decorazione di questo ambiente e le tematiche discusse ai concili costantinopolitani dell’861 e dell’868 consentono di collocare questa decorazione musiva nella seconda metà del IX sec.

Nelle gallerie sono campiti alcuni ritratti di imperatori e imperatrici appartenenti ad epoche diverse. Il ritratto più antico è quello dell’imperatore Alessandro (912-13), paludato nel solenne costume imperiale, arricchito da un loros pesantemente ornato, che gli imperatori indossavano nel corso di alcune particolari cerimonie, come quella che, nella domenica di Pasqua, stando ad un passo del de Coerimoniis di Costantino Porfirogenito (+959), partiva dal Magno Palazzo per giungere a Santa Sofia. Particolarmente interessante è il pannello, campito nella galleria meridionale, che raffigura l’imperatrice Zoe e il terzo marito, l’imperatore Costantino IX Monomaco, che offrono doni a Cristo, Sapienza Divina, e dunque alla sua chiesa: si tratta di teste rifatte, di cui quella di Costantino Monomaco sostituì la testa del precedente marito di Zoe.

La stessa iconografia viene ad improntare il pannello successivo, che rappresenta l’ imperatore comneno Giovanni e la moglie Irene, che indossano ricche corone gemmate, nell’atto di offrire doni alla Theotokos, anch’essa stante, posta al centro: le figure eleganti, prosciugate, dagli incarnati luminosi, annunciano una nuova, felice stagione per la pittura bizantina, che registrerà le sue più fulgide testimonianze, almeno per ciò che attiene alla pittura monumentale, in specie in Grecia e nel Mezzogiorno d’Italia. Sotto il profilo formale, il mosaico con la Deisis, campito sempre nella galleria meridionale, rappresenta una delle vette più alte, a partire dal fondo d’oro, palpitante, animato da pelte dal disegno impercettibile che fa da sfondo al trimorphon: le figure sono eleganti, monumentali, dal modellato delicato, segnato da una forte vena pittorica. Assegnato inizialmente all’epoca comnena, nella prima metà del XII sec., più recentemente la sua datazione è slittata al primo periodo paleologo, per le cogenti affinità con celebri dipinti paleologhi quali quelli di Sopočani, in Serbia, del 1265: ipoteticamente, infatti, il pannello viene attribuito all’epoca immediatamente successiva alla fine della dominazione latina di Costantinopoli (1204-61), quando il primo imperatore della dinastia dei Paleologi, Michele VIII, salì al trono e, come primo atto ufficiale, fece rimuovere il mobilio liturgico latino ed eliminare gli interventi operati in quel lasso di tempo, rinnovando la decorazione della galleria meridionale.

La decorazione musiva superstite di Santa Sofia rappresenta, dunque, una sorta di antologia della pittura bizantina nel vasto arco di tempo dal VI al XIV sec., registrando tutte le novità e le svolte segnate dalla successione delle varie dinastie imperiali: soprattutto, dalla sua analisi emerge vivido il ruolo della Theotokos, figura dalle simbologie stratificate e spesse, che appare rappresentata più volte nei mosaici, dal IX sec. in poi. In ciò si riflette appieno anche il suo ruolo di palladio della città, ruolo che svolse almeno dal VII sec. in poi
(Università del Salento – Marina Falla Castelfranchi)

Il Meeting di Rimini dal 19 al 25 agosto 2007. La verità è il destino per il quale siamo stati fatti dal 19 al 25 Agosto 2007 – La ricerca della verità è da sempre la sfida più impegnativa per l’uomo. L’uomo, infatti, per sua natura è portato a cercare la verità e in tale ricerca impegna tutta la forza della sua ragione. Vi è però, soprattutto oggi, una sfiducia ultima circa la possibilità di conoscere la verità; il relativismo e lo scetticismo che minano la nostra civiltà ne sono una diretta conseguenza. Così la vita, privata di certezze, diviene opaca, apparentemente priva di senso e ultimamente esposta ad ogni possibile forma di…