museo giorgione castelfranco

La pala di castelfranco, ovvero una moderna operazione di “marketing” del 1500 di belhumeur e miatello (parte terza)

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Scritti inediti attorno a Giorgione e alla sua Pala di Alvise Zorzi, Jayne Anderson, Jeanne Belhumeur, Angelo Miatello, Gabriella Delfini

In occasione della Mostra di Giorgione all’Accademia di Venezia, che forse rappresenterà l’unico appuntamento del secolo dedicato al noto artista castellano, riproduciamo alcuni interventi di studiosi pubblicati negli atti del II Convegno AIDA che si è svolto a Treviso in Casa dei Carraresi, il 19 giugno 1997, con il patrocinio dei comuni di Castelfranco, Treviso, Monterchi, della Regione Veneto, della Provincia di Treviso e con il sostegno della Fondazione Cassamarca. La loro attualità rende il dibattito ancor più vivace e ci sprona di mantenere alta la guardia.

Passata la leggera sbornia della riapertura della Casa Giorgione, nel giorno di Ognissanti che per molti è stata una bella sorpresa per l’abbondante buffet di specialità della casa Agostini (Ristorante Il tamburello), ci accorgiamo che le forze politiche non fanno nulla per coinvolgere la cittadinanza nel “festeggiare” la grande mostra di Giorgione e l’avvenuto restauro della Pala. Come al solito se a Venezia o altrove “si ruggisce” qui a Castelfranco “si…sbadiglia”. Ma non nei negozi del centro o fra gli scaffali dell’Ipermercato. La realtà da parecchio tempo è la non curanza e sensibilità di Castelfranco per gli ingenti sforzi sostenuti dalla Soprintendenza del Veneto e del Polo Museale di Venezia che sono riuscite a restaurare e sistemare in un climabox gratuito la preziosa Madonna di Giorgione, organizzare una mostra internazionale, pubblicare un catalogo, far ruotare attorno all’evento culturale molti altri “settori”. Ma su questo cruciale punto ci ritorneremo.

Hanno collaborato al N°11 di AIDANEWS (1997): Jaynie Anderson, Jeanne Belhumeur, Guido Botticelli, Silvia Botticelli, Giuseppe Centauro, Roberto Conforti, Gabriella Delfini, Cristina Grandin, Giovanna Melegari, Angelo Miatello, Chiara Scardellato, Mauro Strada, Alvise Zorzi.

Sommario delle precedenti puntate: 1. Il Tempo di Giorgione a Venezia e in Europa di Alvise Zorzi; 2.On the importance of Giorgione’s Castelfranco Altarpiece by Jaynie Anderson.

La Pala di Castelfranco, ovvero una moderna operazione di “marketing” del 1500 di Belhumeur* e Miatello** (parte terza)

La pubblicazione dell’importante studio di Jaynie ANDERSON, “Giorgione. Peintre de la brièveté poétique” (ed. Lagune di Parigi, 392 pag., 1996) ci permette di leggere l’opera di Giorgione con più determinazione. La nuova monografia di ANDERSON, a cui rivolgiamo i nostri più calorosi complimenti per le sue “indagini storiche” e per aver anche accettato di venire al 43° convegno AIDA sulla salvaguarduia della Pala di Castelfranco, ci permette di rispondere a molti quesiti e a molte fantasticherie che avvolgono i quadri del pittore castellano. La ANDERSON ci aiuta a comprendere attraverso i documenti storici che sono ancora miracolosamente custoditi negli archivi veneti o all’estero il mondo di Giorgione.

Dall’inizio del 1500 Castelfranco Veneto è erede di una delle più grandi opere a olio che ci siano rimaste di Giorgione: la Pala di Castelfranco (200×152 cm). Il meraviglioso dipinto del pittore castellano fece parte dell’arredo della cappella di famiglia pagata dal committente cipriota Tuzio Costanzo. I genealogisti sostengono che i Costanzo fuggirono dalla città tedesca Costanza nel XII° secolo, prima di farsi condottieri in Italia. Nel 1182, due fratelli, Giordano e Guglielmo, furono ammessi nella nobiltà napoletana. Nel 1430, un ramo della loro famiglia s’insediò a Messina. Nel 1462 Muzio Costanzo, padre di Tuzio, al servizio del re di Cipro Giacomo Lusignan e marito di Caterina Cornaro, combatté una grande battaglia navale a Famagusta e fu ricompensato di amministrare come vicere Cipro.

L’Album di famiglia Costanzo, scoperto dalla professoressa anglosassone Jaynie ANDERSON nell’Archivio di Stato a Venezia nel 1973, fa capire che la “generosità” con cui Tuzio fece decorare con iscrizioni ed affreschi la cappella di famiglia all’interno della “chiesa vecchia” dentro le mura fu uno dei tanti pretesti per esprimere alla Serenissima il suo desiderio d’insediarsi nel territorio di Castel Franco. Infatti, lo “sceriffo” cipriota stava attuando dall’inizio del 1488 una vasta campagna di acquisizioni in città e nei dintorni fino a Riese, che si concluse alla sua morte nel 1517. Grandiosa fu l’accoglienza dagli abitanti di Asolo a Caterina Cornaro, exregina di Cipro, l’8 dicembre 1489, con “corone e rami d’ulivo” che si concluse alla fine della giornata con un torneo al quale partecipò lo stesso Tuzio. Dieci anni più tardi il Tuzio fu impiegato dal Podestà di Treviso Gerolamo Contarini per l’assassinio del vescovo Bernardo de Rossi. Alcuni anni più tardi, i discendenti di Tuzio rifiutarono di ordinare a Lorenzo Lotto un ritratto del figlio del condottiere: a differenza di Giorgione, Lotto sembra aver molto sofferto del comportamento eccentrico dei suoi committenti. Il Costanzo ordinò a Giorgione l’allestimento della cappella familiare poco tempo prima del 1500, che a causa della scomparsa immatura del figlio Matteo fu a lui dedicata nel 1504. Questo atteggiamento faceva seguito ad un programma molto più ambizioso che fu quello di convincere la Repubblica Serenissima di aver eletto definitivamente domicilio a Castel Franco e convintosi ormai che suo figlio Giovanni era in procinto di ereditare il titolo di vicere di Cipro. Nel 1509, sotto il pontificato di Giulio II, Tuzio fu nominato governatore della Repubblica in Romagmna e, dopo l’assedio di Novara, ricevette gli elogi del suo avversario Luigi XII che lo stimò quale lancia più fiera d’Italia.

Nel suo testamento del 16 ottobre 1510 Tuzio Costanzo precisò che la sua tomba doveva essere piazzata sul muro accanto a quella del figlio Matteo “Voglio che quando piacerà al mio Signor Altissimo levarmi de questo mondo, se io serò in questa parte de Italia, voglio che corpo mio sia portado et seppelido in Castel Franco ne la gesia de San Liberale ne la nostra capella dove è sepulto el corpo di Mattheo mio carissimo fiolo defuncto, cum quella honesta pompa che parerà a ditti miei commissarij, facendo nel muro di detta capella un altro deposito over sepulchro de marmoro per el corpo mio”.

Purtroppo interpreti nostalgici e bugiardi inventarono dal secolo scorso storie idilliache attorno ai Costanzo e allo stesso Giorgione. Si diceva che il Santo armato fosse il ritratto del figlio Matteo e che la Madonna fosse assorta nel pregare il defunto che si trovava sepolto davanti al quadro. Da qui la soluzione odierna che sembra divenuta tanto pacifica da rendere la Pala tipicamente un oggetto devozionale, miracolante, effimera e feticcia. L’attuale Cappella denominata “Costanzo”, in cui è conservata la Pala, è falsa sia per l’allestimento che per la destinazione “cimiteriale” e l’inferriata da prigione.

La Pala di Castelfranco conobbe strane avventure, quasi fosse maledetta dalle vittime dei mercenari Costanzo. Vi fu persino chi propose una sua totale distruzione, e chi ne rovinò persino l’iconografia. Il “criminale” del momento fu proprio il vescovo Molin che nel 1603, in seguito alla sua visita pastorale alla Chiesa, ordinò che l’altare di San Giorgio, appartenente alla famiglia Costanzo, fosse provvisto di una pala nuova, di un paio di candelieri, di “tabella nova di gloria”, e che si allargasse ad ogni lato di un palmo la predella, buttando via la pala vecchia (quella di Giorgione) e gli angeli vecchi che adornarono l’altare. Nel 1642 il vescovo Marco Morosini ordinò immediatamente che la Pala di Giorgione fosse restaurata nello spazio di un mese, altrimenti nonsi sarebbe più celebrata la messa davanti all’altare di San Giorgio: “Vidit altare Sti Giorgij quius Icon est valdo corrosum: jusit in termine unius mensis resarciri aliquo prout meliori modo respectu picturae manu excelentis artificis depictae”. Forse è stato il primo della serie dei restauri effettuati sul celebre dipinto. Più tardi, nel 1724, fu rinchiusa per preservarla dai raggi solari e dal fumo delle candele con due tavole di legno fatte a forma di portella, come ordinato dal vescovo Zacco, cosa che risultò, anche a giudizio dei contemporanei, più dannosa che utile. Per più di centocinquat’ anni rimase abbandonata in un qualche angolo umido e sporco della Chiesa. Bisognerà aspettare il rifacimento totale del Duomo avvenuto nella metà del XVIII° secolo, ad opera del “demolitore” Francesco Maria Preti, per vedere l’opera di Giorgione di nuovo in una cappella attigua all’altar maggiore. L’altar maggiore a sua volta non era più rivolto a Bisanzio ma bensì a sud.

Fatti e misfatti della Pala di Castelfranco

Come tutte le opere di grande valore anche la Pala di Castelfranco non sempre ha avuto un riconoscimento costante dalle generazioni che si sono succedute. Ancora oggi in Italia si constata pressapochismo e disaffezione nei confronti della salvaguardia del patrimonio artistico. L’occhio nota un degrado crescente o addirittura un “occultamento” di opere d’arte che appartengono alla nostra comunità. Una certa burocrazia sembra diventata la padrona d’Italia, sia essa togale che con i colletti bianchi. Mancano strutture e personale adeguati ai tempi per la valorizzazione di un patrimonio che abbiamo ereditato. Non c’è il coraggio di riorganizzare musei, biblioteche, archivi o di incentivare il ripristino di beni architettonici come “offerta culturale” per la ricerca scientifica, per il tempo libero e per il turismo culturale.

In cinque secoli la Pala di Castelfranco ha rischiato diverse volte di sparire, è stata danneggiata da restauratori poco avveduti, persino “rapita” per ragioni che ancora oggi sono un mistero. La Pala di Castelfranco ha subito in cinque secoli alterità di questo tipo: incuria umana, cattivi restauri e persino momenti di distruzione. La storia nota del restauratore e pittore napoletano Aniano Balzafiori che si sbizzarrì a iscrivere una frase sul retro della tavola: “Cara Cecilia/vieni t’affretta/il tuo t’aspetta” Giorgio Barbarella (riportata per la prima volta da un cronista anonimo nel Quotidiano Veneto, 2 dicembre 1803), fece credere a molti che la Madonna fosse un’amante o una sorella del Giorgione e che il santo armato rappresentasse San Giorgio o un figlio del committente. Il quadro era all’epoca appeso in alto accanto all’altar maggiore, così da esporlo direttamente ai raggi ultravioletti. Si sgretolò parte del manto pittorico. Il pittore Paolo Fabbris d’Alpago nel 1851, membro dell’Accademia Veneta di Belle Arti, per coprire le parti del dipinto andate disperatamente in rovina, si permise persino di rifarle. Alterò il paesaggio giorgionesco, lo modificò con elementi di gusto neo-classico e riaggiustò le torri cadenti e i casolari e vi dipinse un tempietto in alto a destra. Il restauro del Pelliccioli dell’Accademia di Brera tolse per fortuna queste “criminali” manomissioni, che tuttavia hanno lasciato delle ombre evidenti sul quadro. La povera Pala ha subito degli interventi aggiuntivi che riguardano la metà destra del volto del santo armato, quello della Madonna, la mano di S. Francesco, una parte del paesaggio di destra. Altre parti pericolanti del colore originale furono fissate, forse nel Settecento, con trasporti su tela. L’ultimo intervento di restauro radicale fu effettuato nel 1934 a Milano, presso l’Accademia di Brera. Dal 22 ottobre 1935 la Pala di Castelfranco fu destinata in una nuova cappella aperta (quella attuale) a cura della Sovrintendenza ai Monumenti di Venezia, su disegno dell’arch. Vittorio Invernizi, a lato della cappella dell’Assunta. Nella stessa cappella furono collocati i monumenti funerari di Matteo Costanzo (pietra tombale ed uno stemma della famiglia) provenienti dal Museo Civico di Castelfranco.

Qualche inconveniente sorse dopo averla ricollocata nel Duomo: a causa dell’umidà della malta e del cemento usati all’interno della cappella, la preziosa tavola si gonfiò ed incurvò a tal punto da provocare la rottura del cristallo che era stato posto a protezione del dipinto. Lo storico d’arte Amadore Porcella sulle pagine dell’Osservatore Romano criticò aspramente il restauro del Pelliccioli. Nel 1978, nel V° centenario della nascita del Giorgione, fu deciso di spostare il sarcofago di marmo di Matteo Costanzo dal muro, in cui era fissato dal 1934, al pavimento antistante alla Pala. Fu portata per restauro a Venezia, Vicenza, Milano, o per essere messa al riparo dai conflitti bellici in corso, a Firenze dal 1915 al luglio 1919, a Possagno dal 1940 al 1946, o per essere goduta dal pubblico milanese nella Galleria di Brera e nei saloni sontuosi del Palazzo Ducale alla mostra dedicata al Giorgione nel 1935. La Pala subì un furto nella notte dell’8 dicembre 1972, quindi ritrovata in un casolare il 21 dicembre dello stesso anno. Sembra che sia stato pagato un riscatto di 6/7 milioni avvolgendolo di molti misteri. Nessuno conosce con precisione chi abbia trattato con i ladri. Chi parla di un gruppo di giovani estremisti locali, chi invece di un “ordinario sequestro” in cambio di un riscatto. Tuttavia, il sipario dell’omertà si calò anche a Castelfranco e l’opinione pubblica di allora tra un derby di calcio e l’Ultimo tango a Parigi non se ne interessò più. Fu portata di nuovo a Venezia presso le Gallerie dell’Accademia, dove i sollevamenti del colore furono fissati per mano di Betty Jones. Il 19 dicembre 1974 la Pala di Castelfranco fu ricollocata al suo posto nella cappella. Il furto avvenuto nel 1972 ha messo in evidenza l’insufficiente apparato preventivo di tutela del bene storico.

La parchettatura del 1831, eseguita da restauratori autorizzati per regio decreto del Governo Austriaco, sostituita in parte da una nuova nel 1935 dal Pelliccioli di Milano, di cui si vede anche nella radiografia, è una materia viva che assorbe umidità o la espelle nella misura in cui vi è azionato l’impianto di riscaldamento del Duomo (installazione di trent’anni fa). Così le tavolette della parchettatura di mogano (mentre la tavola è stata dipinta su tre assi di legno di olmo), su cui è infissa la Pala di Castelfranco, possono dilatarsi o restringersi, a seconda del grado di umidità nell’aria della cappella dove ora si trova. Si provoca inevitabilmente la caduta costante di piccoli pigmenti pittorici che sono rigidi (la pittura è eseguita sopra un fondo a base di gesso). Secondo alcuni esperti questa “armatura”, tecnica di restauro del secolo scorso e perdurata fino al periodo fascista, non sarebbe più sostenibile. La sua rimozione, che è pesante, per sostituirla con una struttura più leggera, flessibile e sofisticata, potrebbe essere la soluzione ottimale. Non si sa tuttavia se l’attuale Soprintendenza disponga di mezzi sufficienti nell’eseguire una tale operazione. Esperti stranieri ci hanno confidato che esistono strumenti sofisticatissimi per raggiungere un tale scopo.

Molti istituti di ricerca americani ed europei hanno realizzato con assoluta precisione il recupero conservativo di beni culturali ancora più fragili delle tavole di legno (beni storici cartacei, tessili, beni archeologici, ecc.). Secondo diversi esperti interpellati dall’AIDA, la cappella in cui si trova la Pala di Castelfranco non ha requisiti idonei per proteggerla e conservarla nel tempo, non dispone di alcun monitoraggio climatico-ambientale o di sensori computerizzati. La cappella è a ridosso della centrale termica dove è collocato il grande bruciatore a gasolio dell’intero Duomo. Sembra abbia già avuto un incendio. La cappella ha pareti fredde, accanto alla “Torre dei morti”, al chiostro e ad alcune conifere. L’ambiente interno non è isolato da umidità rispetto alla fondazione circostante, cioè con guaine di metallo o altro. Il Duomo viene riscaldato nel periodo invernale con bocchettoni di aria calda che circola. L’aspirazione dell’aria fredda è invece installata sotto una feritoia di circa 2 metri di fronte all’opera di Giorgione. Oltre a succhiare aria e quantità enormi di polveri, inghiottisce persino…qualche moneta di turisti stranieri, credendo che si tratti di “fondamenta romane o di catacombe cristiane”. La Pala è attaccata dal tarlo, che vola liberamente e si moltiplica fra banchi, mobilia e organo. E’ un tarlo millionario, ghiotto di opere d’arte. Si sono contati nel dicembre 1996 ad occhio nudo più di una dozzina di forellini neri e sembra che qualche anno fa la vecchia cornice ne proliferasse a dismisura, contagiando il quadro di Giorgione. Non si conosce la situazione sul retro del quadro.

Il direttore dell’Ufficio tecnico della Soprintendenza per i beni artistici e storici del Veneto, ha così relazionato per l’AIDA nel novembre 1996: “la preziosa tavola di Giorgione, restaurata nel 1974, presenta continui sollevamenti della pellicola pittorica soprattutto localizzati nel cielo, a destra della Vergine, nel basamento del trono in prossimità dello stemma Costanzo e nella zona a destra di San Francesco (…). Il precario stato di conservazione della tavola, ampliamente documentato fin dal 1603, ha richiesto, negli ultimi tre secoli, numerosi restauri che hanno comportato l’uso di materiali eterogenei che, purtoppo, rispondono in maniera diversa al variare delle condizioni ambientali e climatiche. La collocazione della caldaia per l’impianto di riscaldamento nei locali immediatamente retrostanti alla cappella, ove è collocato il dipinto, e la presenza della bocca di ingresso dell’aria fredda collocata davanti alla cappella, provocano continue sollecitazioni sulla pellicola pittorica con conseguenti sollevamenti, che si verificano soprattutto nella stagione primaverile. Sono necessarie le seguenti operazioni: risanamento ambientale con modifica dell’attuale impianto di riscaldamento; collocazione della Pala di Castelfranco, in via sperimentale, all’interno di un climabox per almeno tre anni e periodico controllo dello stato di conservazione dell’opera con scadenze fisse e ravvicinate per almeno tre anni. Qualora le due prime operazioni non risultassero risolutive, si prenderà in esame la rimozione della parchettatura messa in opera nel 1831, e la sua sostituzione con una struttura più leggera e mobile”.

Perché la Pala di Castelfranco non è solo della chiesa

Abbiamo visto che originariamente la preziosa opera fu pagata dal condottiero cipriota Tuzio Costanzo che, secondo quanto scoperto dalla Anderson presso l’Archivio di Stato di Venezia, fu concepita prima del 1500 ed inserita in un programma molto più ambizioso del suo committente. A riprova di ciò, vi sono le fonti storiche che dimostrano una “politica” d’insediamento dei Costanzo nelle terre di Castelfranco e la loro fedeltà alla Serenissima e alla ex regina Caterina Cornaro (vedi l’Album di famiglia dei Costanzo). Inoltre né il testamento di Tuzio Costanzo del 1516 (“voglio che corpo mio sia portado et seppelido in Castel Franco ne la gesia de San Liberale ne la nostra capella”), né quello del pronipote ed omonimo Tuzio III del 1675, accennano alla Pala, quando invece in entrambi i testi si parla della cappella familiare o dell’Altar di S. Giorgio. Se Pala e cappella fossero state realmente eseguite contemporaneamente e con lo stesso scopo (onorare cioè la memoria di Matteo Costanzo condottiere avvenuta vicino a Ravenna nell’agosto 1504), probabilmente sarebbero state citate assieme. Si ricordano queste parole del testamento di Tuzio III: “In caso poi succedesse la mia morte fuori di Venetia…essendo in Castelfranco, nella Chiesa di S. Liberale della nostra Casa una Capella con l’Altar di S. Giorgio, e un monumento fatto far già tanti anni dal sopradetto quondam Signor Tutio Vecchio Cavalier (…) havendo io avuto sempre cura particolare del detto Altare, che già pochi anni feci anco restaurare, voglio che il mio corpo sia sepolto nel monumento suddetto”.

La dinastia Costanzo sparì da Castelfranco, la chiesa fu completamente rifatta dall’architetto F. Maria Preti che ideò una nuova sistemazione di quanto era rimasto della cappella e dell’altar San Giorgio che custodiva il corpo di Matteo Costanzo e quelli forse di altri componenti della sua famiglia. La Pala ebbe restauri e manutenzioni pagati dai Costanzo, dai vescovi di Treviso e Padova, dalle amministrazioni viennesi, romano-monarchiche, romano-fasciste, romano-repubblicane.

Oggi, la Parrocchia del Duomo di Castelfranco Veneto, come ente giuridico e morale, è custode del Bene: rappresentante legale della Parrocchia è il Parroco pro-tempore del Duomo. Il Parroco non potrebbe mai alienarla, nè portarla con sè in caso di suo trasferimento in altra Parrocchia, nè tantomeno si potrebbe pensare che per debiti dello stesso ente, il creditore potrebbe applicarvi ipoteche o simili gravami. Il Parroco, investito dal Vescovo di Treviso, deve mantenere un rapporto con l’amministrazione statuale italiana stabilito dal Concordato tra Santa Sede e Stato Italiano (legge 25 marzo 1985, n.121). L’art. 12 del Concordato prevede che vi sia una apposita intesa collaborativa tra i due soggetti di diritto: Italia e Santa Sede. Il dovere per lo Stato italiano di difendere il proprio patrimonio culturale deriva dalla Costituzione (vedi il precetto contenuto nell’art. 9) e da convenzioni internazionali. Quest’ultime hanno rafforzato la responsabilità di ogni singolo Paese, quale custode di una frazione dell’intero patrimonio mondiale. Si parla dunque di una responsabilità internazionale, in quanto lo Stato italiano e la Santa Sede sono parti di Convenzioni che dispongono che “ogni Stato ha il dovere di proteggere il patrimonio costituito dai beni culturali esistenti sul proprio territorio contro i pericoli di degrado, furto, di scavi clandestini e di esportazione illecita…”. Essendo l’impegno comune, da una parte l’onere della manutenzione, prevenzione, recupero (in caso di furti) che spetta agli organi dell’apparato amministrativo italiano, dall’altra l’onere della conservazione e fruizione che spetta all’apparato chiesastico, anche la proprietà è per così dire “comune”. Nulla impedisce che un cittadino, o una associazione si rivolgano alla giurisdizione competente per denunciare eventuali responsabilità dovute alla insufficiente salvaguardia del Bene in questione. I beni delle Chiese locali fanno parte del patrimonio culturale della Comunità locale, essendo parte integrante e costitutiva della nostra entità regionale. La tutela, invero, per lo Stato ha dimensione umana e storica, per la Chiesa anzitutto tende al maggior bene delle anime. Lo Stato italiano è titolare del potere-dovere di tutelare il patrimonio culturale della comunità, indipendentemente dall’essere proprietario o quantomeno dell’avere la disponibilità fisica di quel patrimonio. E’ quindi una tutela che concerne tutto il patrimonio nazionale a chiunque appartenga a titolo di proprietà. E’ un diritto che gli deriva dalla Costituzione. Invece la Santa Sede, nella formula dell’art. 12 dell’Accordo, non può che limitare la sua tutela al “suo” patrimonio mobiliare e immobiliare; cioè a quello che appartiene agli enti ecclesiastici. E’ quindi tutela che concerne due soggetti diversi ma anche due patrimoni diversi, l’uno – ideale oltre che concreto – che è il patrimonio nazionale e l’altro che riguarda solo quanto è di proprietà degli enti ecclesiastici. L’ente ecclesiastico non ha piena autonomia di gestire i beni culturali in sua “temporanea” custodia. Altrimenti non si spiegherebbe come molte Chiese ricevono fondi dai Comuni e dalle Regioni per l’ordinaria o la straordinaria manutenzione di parte del loro patrimonio, manutenzione che dipende dalle autorizzazioni delle soprintendenze. L’ente ecclesiastico ha semmai una piena autonomia nel gestire la propria attività pastorale. A metà settembre del 1996, il Ministro Valter Veltroni ha firmato un protocollo d’intesa con il presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), Cardinale Camillo Ruini, che attua l’art. 12 dell’Accordo concordatario del 1984. Ha messo fine al lungo periodo di contrasto nel quale la Santa Sede chiedeva l’aiuto dello Stato per la conservazione e i restauri di tale ingente patrimonio che si trova in territorio italiano, mentre lo Stato italiano intendeva attribuire alla Chiesa il compito totale di provvedere, in proprio, all’ingente patrimonio ecclesiastico (ottantamila chiese, musei diocesani, preziose biblioteche e archivi ecclesiastici). Sia il Cardinale Ruini che il Ministro Veltroni hanno messo in rilievo che gli otto articoli del documento firmato si propongono di raggiungere una attiva e organica collaborazione dei beni culturali ecclesiastici, individuando le procedure pratiche, fissando concrete iniziative e rafforzando la collaborazione tra Soprintendenze, enti ecclesiastici e istituti religiosi. La CEI, da parte sua destinerà, nei prossimi 4 anni, 400 miliardi dell’8 per mille ai “beni culturali ecclesiastici”. E per meglio concretizzare l’intesa, è stato istituito un “Osservatorio” composto pariteticamente da rappresentanti del Ministero e della CEI. In più il Mnistero delle Finanze si è accordato con il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali di destinare fino a 300 miliardi, provenienti dal gioco del Lotto, alle attività di recupero e conservazione dei tesori artistici e storici del nostro Paese.

Se lo Stato, infatti, interviene in un ambito, nel quale i diritti della Chiesa sono universalmente riconosciuti, l’osservanza della legislazione predisposta da parte civile a favore e tutela del patrimonio culturale è doverosa, perché nella collaborazione si devono riconoscere anche le competenze dell’Ente Regionale, ora in continuo sviluppo, e delle organizzazioni internazionali, che operano nel campo storico e artistico. Nel caso in cui si verificasse trascuratezza per la conservazione dei beni culturali di eccezionale importanza, potrebbe sorgere una responsabilità con ipotesi di reati penali e civili: abuso d’ufficio, tramite omissioni, per fini elettorali (baratto di consensi dell’urna con il silenzio e l’inerzia) degli amministratori pubblici o di mancanza di diligenza da parte dei custodi del patrimonio sia statale che quello appartenente ad altri entità. Alcuni esempi: l’abusivismo di costruzioni edili nella Valle dei Templi di Agrigento in cambio di voti; la sparizione di oggetti sacri dalle Chiese anche per cause legate a infrastrutture carenti, o addirittura per la complicità di certi membri del clero (cf. Pazzi).

Il museo Giorgione e la Pala di Castelfranco

La Pala di Castelfranco è per l’opinione pubblica un’opera che va oltre al suo valore devozionale in quanto possiede una ricchezza storico-artistica impareggiabile. La storia che avvolge il prezioso dipinto, come del resto quella del suo committente, la Comunità internazionale degli storici dell’arte concordano su questo punto. La stessa Città di Castelfranco e il territorio circostante, abbiamo visto si identificano nell’alto valore culturale che il Giorgione ha lasciato in eredità. In tutti i libri o scritti, pubblicati in Italia o all’estero, che si parli dell’arte rinascimentale italiana vi è sicuramente un riferimento a quest’opera del Giorgione. La Pala di Castelfranco è oggetto di studi continui e di rivelazioni sempre più interessanti per una lettura moderna e ricca di contenuti che superano quelli di carattere meramente iconografico religioso.

Ne consegue che potremmo individuare la Pala di Castelfranco e il sito in cui si trova come rispondenti a certi criteri che il Comitato intergovernativo per la protezione del patrimonio mondiale e culturale e naturale dell’Unesco considera patrimonio mondiale, cioè possano far parte del patrimonio culturale dell’umanità.

La Pala di Castelfranco e il luogo in cui si trova possono rispondere ai seguenti criteri: la Pala rappresenta un capolavoro del genio creatore umano (come del resto il Cenacolo di Leonardo da Vinci). La meravigliosa opera di Giorgione è direttamente o materialmente associata ad uno dei periodi storici più sensazionali che la civiltà europea abbia conosciuto. Rappresenta una tradizione culturale e di pensiero di un’epoca e di un territorio specifici, che rischia però di divenire vulnerabile sotto l’effetto di mutamenti irreversibili. Le stesse cartine di riso incollate sulle fessure apertisi sul manto pittorico della preziosa tavola, per lungo tempo lasciate dall’Ufficio tecnico della Soprintendenza per i beni artistici e storici del Veneto, sono dannosissime – secondo esperti interpellati. Si impregnano di polvere e di umidità che penetrano nelle fessure del dipinto, o addirittura lasciano degli aloni, che si notano anche ad occhio nudo. Quel giorno che la Pala di Castelfranco sarà sottoposta finalmente ad un restauro conservativo e ad uno studio radiografico, “si scopriranno quanto imbecilli siano stati gli uomini degli anni novanta” (frase espressa durante la campagna elettorale da un sostenitore della Lista dell’Ulivo).