Parte terza
GIULIO II ALLEATO CON VENEZIA – GUERRA CONTRO ALFONSO D’ESTE CONVOCAZIONE DEI CONCILII DI PISA E DEL LATERANO
L’assoluzione dalla scomunica equivaleva alla pace tra la Santa Sede e Venezia e in sostanza significava il ritiro del Papa dalla lega di Cambrai, e a questa, poiché anche il re di Spagna si era staccato dagli altri collegati, dei principali sottoscrittori non rimasero fedeli che Luigi XII e Massimiliano. Di questi due il più pericoloso per l’ Italia era il primo, e a lui Giulio II cominciò a creare fastidi per distruggere la grande autorità che si era guadagnata nella penisola.
Cercò infatti, senza riuscirvi, di spingere il re ENRICO VIII d’Inghilterra contro la Francia, accordò a FERDINANDO il CATTOLICO l’ investitura del reame di Napoli, tentò di fare ribellare i Genovesi, concluse un trattato d’amicizia con gli Svizzeri che si erano raffreddati con il sovrano francese, assicurandosi il loro servizio militare; ed infine si diede da fare d’attorno per conciliare Venezia col duca di Ferrara e dividere l’ Estense Alfonso dal re francese. Queste ultime trame però non gli riuscirono. Allora cominciò a cercar cavilli per romperla con Alfonso, gli proibì la raccolta del sale a Comacchio, lo minacciò di annullare il contratto dotale di Lucrezia Borgia, e chiese che alcuni castelli di Romagna portati in dote da questa fossero restituiti alla Chiesa e che l’annuo contributo del ducato da cento fiorini fosse portato a quattromila. Alfonso tenne duro, stringendosi sempre più a Luigi XII, il quale da prima tentò di riconciliarlo col Pontefice, poi, vedendo che l’ostinazione di Giulio II difficilmente poteva esser piegata, giudicò conveniente di rinsaldare maggiormente l’alleanza con Massimiliano e di ricominciare la guerra contro Venezia per intimorire il Papa. Dietro ordine del re di Francia lo Chaumont entrò nel Polesine con millecinquecento lancieri e diecimila fanti, Alfonso d’ Este e il d’Anhalt, che presidiava Verona, si unirono a lui, e tutti insieme marciarono alla volta di Vicenza. Perché Venezia potesse difendersi, il Pontefice le permise di assoldar truppe nello stato della Chiesa e le cedette il suo condottiero Gian Paolo Baglioni, il quale assunse il comando dell’esercito della repubblica (il conte di Pitigliano era morto nel febbraio del 1510). Il Baglioni, non disponendo di molte truppe, lasciò il Vicentino e si afforzò alla Brentella, cosicché Vicenza dovette aprire le porte ai confederati, che la misero a sacco.
Poco tempo dopo Legnago cadde in potere dei francesi e nel giugno la stessa sorte toccò a Cittadella, Marostica e Bassano. Erano a questo punto le cose quando GIULIO II reputò giunto il momento dI intervenire con la “solita arma” che ogni tanto funzionava, e funzionava meglio se era accompagnata da vere armi. Il 9 agosto del 1510, Giulio II, lanciò la scomunica contro il duca ALFONSO d’ ESTE e, per distrarre le forze francesi dalla difesa del ducato di Ferrara, fece assalir Genova e altre città della Riviera con forze di terra e di mare e indusse gli Svizzeri a scendere in Lombardia. L’ impresa della Liguria, tentata dal fuoruscito Ottaviano Fregoso e da Marc’Antonio Colonna, però fallì; quella degli Svizzeri, che si spinsero fin nella Brianza -donde poi comprati dall’oro francese tornarono nelle loro montagne- non ottenne che di fare rientrare frettolosamente le truppe dello Chaumont nel ducato di Milano; successo migliore invece ebbe la spedizione pontificia nell’ Emilia capitanata da Francesco Maria della Rovere che indusse Modena a darsi al Pontefice.
In questo frattempo i Veneziani passavano all’offensiva: LUCIO MALVEZZI, capitano della repubblica, ricuperava Bassano e Marostica, entrava a Vicenza e si spingeva sotto Verona, entro cui si erano rifugiate le truppe imperiali. Ma un assalto tentato alla città, dopo un intenso fuoco d’artiglieria, non ebbe esito felice e i Veneziani, tolto l’assedio, posero il campo a cinque miglia da Verona.
IL CONCILIO FRANCESE DI TOURS
Il contegno del Papa non poteva non irritare LUIGI XII, che, volendolo colpire anche lui con le “armi spirituali”, nei primi di settembre adunò a Tours i vescovi francesi. Questo concilio accolse le accuse del re rivolte al Pontefice, il quale, secondo il sovrano, turbava la cristianità con il suo spirito bellicoso, dichiarò che il Papa non poteva portare guerra ai principi per motivi esclusivamente temporali, ed esortò Luigi a portare le sue lagnanze davanti ad un concilio ecumenico da convocarsi d’accordo con l’ imperatore. Il CONCILIO di TOURS sdegnò vivamente GIULIO II. Egli ritentò, ma inutilmente, l’impresa di Genova, poi, deciso di farla finita col duca di Ferrara, allo scopo di sorvegliar personalmente più da vicino l’andamento della guerra, a cavallo parti per Bologna dove giunse il 20 settembre con tutta la sua corte. La sua presenza valse ad accelerare il ritmo della guerra e il duca Alfonso si trovò contemporaneamente minacciato dalle milizie pontificie e da una flotta veneziana che risaliva il Po. In aiuto dell’ Estense allora accorse lo Chaumont, il quale, avanzandosi celermente, il 12 ottobre giunse a dieci miglia da Bologna. Il Papa, trovandosi con poche e male disciplinate truppe, assillato dalle preghiere dei cardinali che volevano indurlo alla pace e minacciato dai partigiani del Bentivoglio, aprì trattative con lo Chaumont, che si era spinto a tre miglia dalla città; ma qualche giorno dopo, rinfrancato per l’arrivo di un buon esercito, il papa ruppe bruscamente i negoziati, mentre il generale francese, preoccupato dall’arrivo dei rinforzi pontifici, si ritirava a Rubiera. Quando fu convinto di aver truppe sufficienti per cominciare l’offensiva, Giulio II fece avanzare il suo esercito per investire Sassuolo, che in capo a due giorni capitolò, quindi ordinò che fossero assalite Concordia e Mirandola. La prima cadde verso la metà di dicembre, la seconda resistette più lungamente, ma il 20 gennaio del 1511 capitolò.
Una ventina di giorni dopo, cioè 1′ 11 febbraio del 1511, cessava di vivere Carlo di Chaumont e il comando dell’esercito francese veniva affidato al maresciallo Gian Giacomo Trivulzio. Questi ai primi di marzo assalì e riprese Concordia, poi occupò Castelfranco, minacciando l’esercito pontificio che si era ritirato a Casalecchio. Giulio II non sentendosi sicuro a Bologna partì per Ravenna, lasciando in qualità di suo legato il cardinale Francesco Alidosi, il quale, anziché provvedere alle difesa della città, anche lui se ne fuggì ad Imola. Il 21 maggio, saputasi la fuga del cardinale, i partigiani del Bentivoglio si levarono in armi, l’esercito pontificio accampato a Casalecchio si ritirò precipitosamente in Romagna, abbandonando bagagli e cannoni, e i Francesci entrarono in Bologna, dove fu dichiarato decaduto il governo papale e una statua di bronzo del Pontefice, opera di Michelangelo, che ornava la facciata di S. Petronio, fu abbattuta e ridotta in pezzi. La colpa della perdita di Bologna fu attribuita da Francesco Maria della Rovere, cardinale degli Alidosi, il quale andò a Ravenna per giustificarsi con il Pontefice; ma il della Rovere, incontratolo in una via della città, colto da furore, lo assalì e a colpi di spada lo uccise. Addolorato e nello stesso tempo sdegnato per questo delitto e per le vicende della guerra, Giulio II partì da Ravenna alla volta di Roma, ma passando da Rimini il suo dolore e il suo sdegno dovevano essere aggravati dall’annunzio di un concilio generale convocato a Pisa per il 1° di settembre con lo scopo di riformare la Chiesa nel suo capo e nelle sue membra.
Parte quarta
LA LEGA SANTA
GASTONE DI FOIX A BOLOGNA E A BRESCIA
BATTAGLIA DI RAVENNA
Tornato da Ravenna a Roma, Giulio II con il proposito di opporsi al concilio di Pisa, il 18 luglio del 1541 convocò a sua volta un altro concilio da tenersi a S. Giovanni in Laterano il 19 aprile dell’anno dopo e minacciò i cardinali ribelli di privarli della porpora e dei benefici se entro due mesi non si fossero presentati a lui per giustificarsi. I preparativi per i due concili vennero sospesi da un’ improvvisa malattia del Pontefice, che, per gli strapazzi della guerra e per i molti affanni provati, nell’agosto si ammalò così gravemente da far temere per la sua vita. Si sparse anzi la voce della sua morte e il protonotario Pompeo Colonna, credendo vera la notizia, levò a tumulto i Romani; ma presto la voce fu smentita e la quiete ritornò nella città.
LA LEGA SANTA
In breve la robusta fibra del Papa trionfò sul male. Non appena si fu ristabilito, Giulio II si adoperò affinché il concilio di Pisa non avesse luogo e fece passi a Firenze perché non permettesse che le sedute si tenessero nel suo territorio. Non osando la signoria fiorentina rompere l’amicizia col re di Francia e col Papa e tenendo perciò un atteggiamento indeciso, Giulio II lanciò l’ interdetto su Pisa e Firenze; nello stesso tempo intensificò le pratiche da tempo iniziate presso la Spagna e l’ Inghilterra per trascinarle nella guerra contro la Francia e il 5 ottobre pubblicò solennemente nella Chiesa di Santa Maria del Popolo col grido di “fuori i barbari” la LEGA SANTA tra la Chiesa, Ferdinando il Cattolico e la repubblica di Venezia. Il concilio di Pisa, su cui tanto assegnamento facevano Luigi XII e Massimiliano, ebbe il più grande insuccesso. Pochissimi furono i prelati che intervennero e questi furono apertamente osteggiati dalla cittadinanza e dal clero di Pisa che rifiutò loro le chiese e i paramenti.
Il 13 novembre, accesasi una mischia tra i cittadini e gli arcieri francesi di scorta ai cardinali ribelli, questi, colti da paura, abbandonarono la città e trasferirono il concilio a Milano, la cui popolazione non fece loro migliore accoglienza. Si dimostravano quindi inefficaci le “armi spirituali” suscitate contro il Pontefice dal re di Francia e la decisione della grande contesa veniva affidata alle sorti ancora una volta alle “armi vere”. “…La Lega Santa – scrive il Sismondi – aveva per obbiettivo il mantenimento dell’unione della Chiesa minacciata di scisma dal conciliabolo di Pisa; la restituzione alla Santa Sede di Bologna e di ogni altro feudo che immediatamente p successivamente potesse appartenerle, volendo indicare con ciò lo stato di Ferrara; per ultimo la cacciata dall’Italia con un poderoso esercito di chiunque si opponesse a questo duplice proposito, vale a dire del re di Francia. Per mettere in piedi questo esercito il Papa prometteva quattrocento uomini d’arme, cinquecento cavalli e seimila fanti, la repubblica di Venezia ottocento uomini d’arme, mille cavalli ed ottomila fanti, il re di Spagna milleduecento uomini d’arme, mille cavalli e diecimila fanti. Ma, poiché il contingente del re cattolico richiedeva troppa spesa, il Papa e il senato si obbligavano a pagargli ventimila ducati al mese ciascuno per tutta la durata della guerra. L’esercito della lega doveva, esser comandato dal catalano Raimondo di Cardona, vicerè di Napoli; una flotta di dodici vascelli spagnoli e di quattordici veneziani doveva essere allestita per portar la guerra sulle coste francesi. Tutti quei paesi conquistati dagli alleati, appartenenti una volta a Venezia dovevano esserle restituiti. L’ imperatore e il re d’ Inghilterra, desiderandolo, potevano essere accolti nella lega. Il Pontefice abilmente aveva fatto inserire quest’articolo a favore di Massimiliano sperando di staccarlo dalla Francia; e il cardinale di York, ambasciatore di Enrico VIII, che era uno dei negoziatori della lega, non avendo ancora ricevuto istruzioni per sottoscrivere il trattato, aveva chiesto che a nome e in favore del suo sovrano fosse inserita la medesima riserva..”(Sismondi ). Verso la fine del dicembre l’esercito della lega si raccolse intorno ad Imola con il doppio intento di assalire il ducato di Ferrara e di conquistare Bologna. Nel frattempo sedicimila fanti svizzeri scendevano in Lombardia o giungevano fin presso Milano; ma il generale francese Gastone di Foig mandato a governare Milano dapprima ne sorvegliò le mosse poi con forti somme li indusse a ritornare in Svizzera. Sul finire del gennaio del 1512 gli Spagnoli e i Pontifici cinsero d’assedio Bologna; le artiglierie furono subito messe in azione sbrecciando le mura e sotto la direzione dell’ingegnere Pietro Navarro furono scavate mine sotto le fortificazioni. La città aspettava di essere assalita quando, la notte dal 4 al 5 febbraio, vide giungere in suo soccorso l’ intero esercito francese comandato da GASTONE di FOIX, che col suo arrivo indusse i collegati a levar l’assedio e a ritirarsi nelle Romagne. Ma un giorno prima dell’ ingresso del generale francese a Bologna, i Francesi avevano subìto un grave rovescio in Lombardia: Brescia era stata espugnata dai Veneziani comandati da Andrea Gritti, che aveva iniziato l’assedio della fortezza, e Bergamo e le altre terre della repubblica occupate dai Francesi, eccettuate Crema e Cremona, erano riuscite a cacciare gli stranieri ed avevano inalberato il vessillo di S. Marco.
Alla notizia di questi avvenimenti Gastone di Foix lasciò trecento lancieri e quattromila fanti a Bologna e partì velocemente alla volta di Brescia. Presso Isola della Scala assalì e mise in fuga, dopo vivace combattimento, una schiera veneziana capitanata da Gian. Paolo Baglioni; quindi si rimise in cammino e nove giorni dopo la sua partenza da Bologna giunse a Brescia. Il giorno dopo -era il 19 febbraio- i Francesi assalirono la città e nel primo scontro cadde gravemente ferito il cavaliere Baiardo. La battaglia fu impetuosa e i Veneziani si difesero in modo ammirevole; ma alla fine dovettero cedere al numero dei nemici e Brescia, tornata in possesso dei Francesi, venne orribilmente saccheggiata. Molte e degne di barbari furono le violenze commesse dai vincitori; per due giorni interi uccisero, torturarono, rubarono, stuprarono; finalmente Gastone di Foix ordinò che cessassero le stragi e il saccheggio e le soldatesche furono fatte uscire dalla città cariche di bottino. Bergamo, atterrita, tornò dolorosamente a sottomettersi. Dopo la presa di Brescia ci fu un po’ di tregua nelle operazioni di guerra; tregua che necessariamente doveva aver breve durata per la situazione critica in cui si trovava Luigi XII. Minacciato dalla parte dei Pirenei da Ferdinando, dal nord da Enrico VIII d’ Inghilterra, e dagli Svizzeri che parevano disposti , a scender nuovamente in Lombardia, il re di Francia spingeva Gastone di Foix a proseguire le operazioni per costringere il Pontefice e i Veneziani alla pace e fare ritorno in patria. Dopo un mese circa di riposo, il giovanissimo generale si portò a Finale e di là si spinse verso le Romagne cercando d’indurre Raimondo di Cardona ad accettar battaglia. Il capitano spagnolo invece si sforzava di evitare di combattere per stancare il nemico e dar tempo agli Inglesi di invadere la Francia e agli Svizzeri di giungere in Italia. Allora Gastone di Foix si mosse contro Ravenna sicuro che il nemico non avrebbe lasciato senza soccorsi questa città. L’ 8 aprile vi giunse e subito cominciò a bombardarla, aprendo nelle mura alcune brecce. Il giorno dopo fu tentato un assalto che, sebbene vigoroso, fu respinto dal presidio comandato da Marc’Antonio Colonna. Credendola in pericolo, il CARDONA si mosse da Faenza con tutto il suo esercito per soccorrere la città assediata e il 10 di aprile giunse alle rive del Ronco, proprio di fronte all’esercito francese.
Il giorno dopo, che era la domenica di Pasqua, cominciò la battaglia. L’esercito francese era ordinato a semicerchio: la destra, protetta dalla numerosa ed ottima artiglieria del duca di Ferrara, si componeva di settecento uomini armati francesi e della fanteria tedesca; il centro era formato di ottomila fanti guasconi e piccardi; la sinistra era forte di cinquemila italiani comandati da Federico di Bozzolo e da tremila arcieri; di retroguardia stava il LA PALISSE con seicento lance. L’esercito di Raimondo da Cardona stava trincerato alla riva del Ronco: alla sinistra stava Fabrizio Colonna con ottocento uomini d’arme e seimila pedoni, al centro personalmente il Cardona e il cardinale Giovanni de’ Medici, legato pontificio, con seicento lance e quattromila fanti, alla destra era il CARVAJA con quattrocento uomini d’arme e quattromila fanti, protetti da una schiera di cavalli al comando del giovane marchese di Pescara FERDINANDO d’AVALOS; tutta il fronte era protetto dalle artiglierie. I Francesi passarono indisturbati il Ronco e sempre in formazione di semicerchio avanzarono verso il nemico, fermandosi poi a quattrocento passi e iniziando il cannoneggiamento, cui rispose il tiro nutrito delle artiglierie spagnole che causarono gravissime perdite alle fanterie francese e tedesca. Un assalto tentato dai fanti di Gastone di Foix fu nettamente respinto; ma la medesima sorte subì un contrattacco spagnolo. In questa prima fase della battaglia la peggio toccò ai Francesi che persero il novanta per cento dei capitani della loro fanteria e parecchie migliaia di soldati. La seconda fase rialzò le sorti dell’esercito francese per merito del duca Alfonso d’Este, il quale, portate le sue batterie sulla sinistra, aprì un fuoco micidiale prendendo d’infilata il nemico; ma le palle giungevano anche alla destra francese producendovi non pochi danni. Narrasi che, avvertito di questi gravi errori, il duca di Ferrara dicesse ai suoi cannonieri: «Non importa; sono tutti stranieri e perciò nemici degli Italiani!». Non potendo resistere in posizione di attesa al fuoco dell’artiglieria, Prospero Colonna, malgrado gli ordini contrari del Cardona, uscì arditamente all’attacco con gli uomini, costringendo Pietro Navarro ad andar anche lui all’assalto con la fanteria spagnola. Ma gli uomini del Colonna, mentre avanzavano contro l’artiglieria estense che li aveva decimati, furono presi di fianco da una schiera comandata da Ive d’Alégre e sconfitti. Fabrizio, circondato dai nemici, dopo eroica resistenza si arrese nelle mani del duca di Ferrara. Rotto lo schieramento del Colonna, il Cardona e il Carvajal presero la fuga; il marchese di Pescara invece tentò di arrestare la cavalleria francese, ma venne ferito e fatto prigioniero. Ora tutto il peso della battaglia gravava sulla famosa fanteria spagnola, la quale, dopo aver fatto una orribile strage sui fanti tedeschi, venne assalita di fronte e dai lati dalla cavalleria francese, personalmente comandata da Gast ne di Foix e da Ivo d’Alégre. Quest’ultimo trovò la morte in questo terribile assalto. Rimasta sola di fronte a tutto l’esercito nemico, la fanteria spagnola cominciò a ritirarsi in perfettissimo ordine, respingendo valorosamente gli attacchi francesi. Durante questa ritirata, i Francesi perdettero il loro generalissimo, che in quella campagna, a soli ventitré anni, si era rivelato uno straordinario condottiero. Spintosi audacemente tra la fanteria con una squadra di cavalli, fu sbalzato di sella e ucciso a colpi di picca e di spada. Morto il loro capo, i Francesi arrestarono la loro avanzata e di conseguenza cessò la battaglia. Essa fu la più sanguinosa di tutte quelle che da molto tempo si erano combattute in Italia: dai dieci ai ventimila morti rimasero sul campo; l’esercito del Cardona lasciò in mano del nemico le artiglierie, le insegne, i bagagli e molti prigionieri, tra cui, oltre il Colonna e il Pescara, vanno ricordati Pietro Navarro, i marchesi di Bitonto e della Palude e il cardinal de’ Medici. Dopo la battaglia, Ravenna cadde in potere dei Francesi; Imola, Forlì, Cesena, Rimini aprirono le porte ai vincitori e il cardinale di Sanseverino ne prese possesso in nome del Concilio di Milano.
RITIRATA DEI FRANCESI – PROGRESSI DEI COLLEGATI
DIETA DI MANTOVA – I MEDICI TORNANO IN FIRENZE
MASSIMILIANO SFORZA DUCA DI MILANO, – MORTE DI GIULIO II
Sebbene vincitori e padroni delle Romagne, i Francesi non si trovavano in grado di continuare l’offensiva, privi com’erano di un capo autorevole e mancando la concordia tra il La Palisse, successo a Gastone di Foix nel comando dell’esercito, il cardinale di Sanseverino e Gian Giacomo Trivulzio. Si aggiunga che Luigi XII desiderava la pace col Papa, che l’ imperatore Massimiliano, subito dopo la battaglia di Ravenna, aveva ordinato alle truppe tedesche di ritirarsi e si apprestava a passar dalla parte dei collegati e, infine, che il re di Spagna e il re d’ Inghilterra facevano assalire dai loro eserciti il territorio della Francia. Giulio II era stato fortemente scosso dalla notizia della sconfitta subita nella battaglia di Ravenna e, costernato dall’atteggiamento ostile di molti baroni romani e dallo stesso suo nipote Francesco Maria della Rovere, si era piegato ad entrare in trattative con Luigi XII; ma, riconfortato dall’annuncio dell’indisciplina e debolezza dell’esercito francese, dalle promesse di Ferdinando di inviare in Italia Consalvo di Cordova e dagli incitamenti degli ambasciatori spagnolo e inglese a continuare la lotta, riprese animo e il 3 maggio del 1512 aprì il Concilio Lateranense, fece annullare le decisioni dell’altro concilio ed ammonì severamente il re di Francia, imponendogli sotto la minaccia della scomunica di render la libertà al cardinale Giovanni de’ Medici. Così la guerra ricominciava con maggior vigore. Ventimila Svizzeri, assoldati dal Papa, scendevano nel Veronese e insieme all’esercito veneziano comandato da Gian Paolo Baglioni passavano il Mincio e l’Oglio e il 5 giugno occupavano Cremona, costringendo il presidio francese a chiudersi nella cittadella; nello stesso tempo Bergamo si ribellava ed apriva le porte ai Veneziani; dal sud intanto l’esercito della lega rioccupava Rimini, Ravenna, Cesena, e le altre terre di Romagna. Il La Palisse, minacciato da ogni parte, aveva raccolto tutti i presidi della Romagna e dell’Emilia a Pontoglio e di qua si era trasferito più tardi a Castiglione delle Stiviere, a Valeggio, a Gambara, ritirandosi infine nei pressi di Pontevico. Non ritenendo sicura questa posizione, raggiunse poi Pizzighettone, e da qui convogliò l’esercito a Pavia, lasciando Milano scoperta. La ritirata del La Palisse costrinse il Trivulzio ad abbandonare Milano nel cui castello lasciò però un presidio, portandosi dietro il cardinale de’ Medici, il quale, durante il viaggio, fu strappato alle guardie e rimesso in libertà da una turba di contadini. Neppure a Pavia i Francesi riuscirono a stare tranquilli e, assaliti dall’esercito della lega, dovettero ben presto abbandonarla. Anche Lodi fu poi perduta; Bologna venne occupata dalle truppe pontificie e Giulio II si impadronì di Reggio e di Modena e occupò per sé Parma e Piacenza sotto il pretesto che queste due città facevano parte dell’antico esarcato di Ravenna. Milano aprì le porte ai collegati; Genova si ribellò acclamando doge Giano Fregoso (29 giugno) e costringendo il governatore Francesco de la Rochechouart a chiudersi nel forte della Lanterna. Oramai i Francesi potevano dirsi cacciati dall’ Italia. Non restavano che questa fortezza genovese, il castello di Milano, Brescia, Crema, Legnago e le fortezze di Novara e Cremona. Era tempo perciò di procedere alla divisione dei territori e di ciò che rimaneva. Con questo scopo si tenne una dieta a Mantova, in cui fu stabilito di mettere sul ducato di Milano MASSIMILIANO SFORZA, primogenito di Ludovico il Moro, affidandogli la protezione della repubblica di Genova, e di mandare un esercito in Toscana per abbattere il governo repubblicano di Firenze e rimettere in questa città i Medici. Nell’agosto del 1512 RAIMONDO di CARDONA e il cardinale GIOVANNI de’ MEDICI, che aveva sborsato diecimila ducati, alla testa di duecento uomini e cinquemila fanti spagnoli, valicarono gli Appennini e, giunti a Barberino, fecero sapere ai Fiorentini che non avevano intenzione di togliere loro la libertà e le leggi, ma volevano soltanto che fosse cacciato il gonfaloniere SODERINI e fossero riammessi i Medici come privati cittadini. Poichè Firenze rifiutò di cacciare il gonfaloniere, il Cardona avanzò con le sue truppe e il 29 agosto, dopo dei brevi tiri di artiglieria, si impadronì di Prato che fu messa orribilmente a sacco. Firenze non aveva fatto nessun preparativo per la difesa. Ma la notizia del saccheggio di Prato mise in costernazione la città; un colpo di mano dei partigiani dei Medici riuscì in tempo a chi voleva resistere di organizzare una di difesa. Il Soderini venne deposto e se ne andò in esilio; al Cardona fu promesso il pagamento di centoquarantamila ducati e a settembre entrarono in Firenze i membri della famiglia medicea: il cardinale Giovanni e Giuliano, figli del Magnifico, Giulio, figlio di quel Giuliano che era perito nella congiura dei Pazzi, e Lorenzo II figlio di quel Piero che aveva trovato la morte nelle acque del Garigliano. Con il ristabilimento dei Medici fu abolito il gonfalonierato a vita e vennero abrogate tutte le leggi posteriori al 1494; il governo apparentemente rimase repubblicano, ma in sostanza fu asservito alla famiglia medicea e in special modo al cardinale, il quale, del resto, non pensò ad altro che a guadagnarsi la simpatia del popolo con feste e ad accrescere con favori il numero dei suoi partigiani. Il 18 settembre Raimondo da Cardona parti da Prato e si recò sotto Brescia che era stretta d’assedio dai Veneziani. Il d’Aubigny che la difendeva si arrese al vicerè di Napoli. Di lì a poco Legnago si arrese agli imperiali, Crema alla repubblica di Venezia e Novara allo Sforza. Questi il 29 dicembre ricevette con una solenne cerimonia le chiavi di Milano dagli Svizzeri, i quali si impegnarono di proteggere il ducato Milanese e di mandare in suo aiuto tutte le truppe occorrenti. Sul finire dell’anno ebbe luogo a Roma una dieta dei confederati per risolvere le questioni rimaste insolute al congresso di Mantova. Fra queste le più difficili a risolversi erano quelle tra l’ imperatore Massimiliano e i Veneziani. Il primo, che occupava Verona, reclamava il possesso di Vicenza e non voleva lasciare Padova, Treviso, Brescia, Bergamo e Crema alla repubblica se questa non si obbligava a pagargli un tributo annuo di trentamila fiorini e duecentomila per l’ investitura. Il Pontefice cercò di convincere i Veneziani ad aderire alle pretese di Massimiliano; non essendovi riuscito, concluse con l’imperatore un’alleanza. In virtù di questa il Papa s’impegnava a mettere in opera le “armi spirituali” e temporali affinché l’alleato entrasse in possesso delle terre assegnategli dal trattato di Cambrai; in compenso l’imperatore aderiva al Concilio Lateranense e prometteva di non soccorrere Alfonso d’ Este e i Bentivoglio. Quest’alleanza, che costrinse i Veneziani ad orientarsi verso la Francia, fu l’ultimo atto di Giulio II, che nella notte dal 20 al 21 febbraio del 1513 cessò di vivere. Di lui il GUICCIARDINI scrisse: “”…Degno certamente di somma gloria se fosse stato principe secolare; o se quella cura e intenzione, che ebbe ad esaltare con le arti della guerra la Chiesa nella grandezza temporale, avesse avuta ad esaltarla con le arti della pace nelle cose spirituali: e nondimeno sopra tutti i suoi antecessori di chiarissima ed onoratissima memoria, massimamente appresso a coloro; i quali, essendo perduti i veri vocaboli delle cose, e confusa la distinzione del pensare rettamente, giudicano che sia più ufficio dei pontefici aggiungere con le armi e col sangue dei cristiani imperio alla Chiesa apostolica, che l’affaticarsi con l’esempio buono della vita e col correggere e medicare i costumi trascorsi per la salute di quelle anime per la quale si magnificano che Cristo li abbia costituiti in terra suoi vicari”. I cardinali si chiusero in conclave il 4 marzo e il giorno 11 riuscì eletto GIOVANNI de’ MEDICI che, col nome di LEONE X, fu incoronato papa in San Giovanni in Laterano l’ 11 aprile del 1513, anniversario della battaglia di Ravenna. Nella scelta del Medici, uomo dotto, amante delle arti e della pace, c’era la volontà e il desiderio da cui il collegio cardinalizio era animato di dare alla Chiesa un capo che del predecessore non avesse la natura collerica e l’ indole battagliera. Terminato il periodo di Giulio II, le guerre della Lega Cambrai, lo scenario cambia con la Francia in Lega con Venezia per riconquistare e dividersi la Lombardia ed è il periodo che va dal 1512 al 1517.
Fonti, citazioni, e testi
Prof. PAOLO GIUDICI – Storia d’Italia –
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE – (33 vol.) Garzanti
CRONOLOGIA UNIVERSALE – Utet
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D’ITALIA, (14 vol.) Einaudi
GUICCIARDINI, Storia d’Italia – Ed. Raggia, 1841
LOMAZZI – La Morale dei Principi – ed. Sifchovizz 1699