Pulitura dell’opera d’arte

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Riflessioni per un corretto intervento di restauro

Guido BOTTICELLI* e Silvia BOTTICELLI**

Il restauro di un manufatto artistico è un intervento le cui scelte metodologiche, e di conseguenza i relativi risultati, sono sempre state, e purtroppo lo sono ancora oggi, strettamente correlate a fattori dipendenti dagli atteggiamenti culturali e di gusto del momento storico in cui si opera.

Fino al secolo scorso, ad esempio, l’intervento di restauro è stato quasi esclusivamente integrativo. A prescindere da alcune individuali sensibilità, infatti, secondo il gusto classicista del momento il frammento non poteva essere concepito in quanto tale e, nello stesso tempo,

la grande manualità degli artisti e degli artigiani ottocenteschi, di un livello qualitativo tale da competere spesso con gli antichi, consentiva delle reintegrazioni spesso irriconoscibili.

Ruskin fu uno dei primi e più accesi critici contro questo tipo di intervento, contro il “demone” del restauro, tanto che, di fronte all’alternativa di scegliere fra quest’ultimo o la rovina di un’opera d’arte, non avrebbe avuto dubbi sulla seconda soluzione. Egli, inoltre, ebbe il merito di aver introdotto l’importante concetto di manutenzione o “conservazione preventiva”, da preferirsi al restauro integrativo. Alla fine dell’Ottocento fino, praticamente, al secondo dopoguerra, il romantico gusto per i primitivi e la riscoperta del fascino del medioevo hanno favorito un concetto del restauro completamente opposto, che ha portato alla distruzione di ogni tipo di rifacimento o aggiunta più tarda, specialmente sei-settecentesca. Si trattava del cosiddetto “restauro archeologico”, risultato di una particolare ideologia culturale che, a prescindere dall’istanza storica del manufatto, privilegiava l’originalità assoluta dell’opera d’arte, la quale, liberata da ridipinture e rifacimenti – quelli che oggi amiamo chiamare “restauri storici” – rischiava spesso di rimanere un semplice frammento. Del resto, negli ultimi anni le cose non sono molto cambiate e ancora oggi si levano continuamente voci di biasimo nei confronti di interventi condotti indiscriminatamente, senza tener conto dell’originalità materica, figurativa e storica del manufatto artistico, perché magari condizionati dalla moderna percezione visiva abituata alle immagini dei mass media che tendono a privilegiare la lucentezza e l’appiattimento dei colori, caratteristici delle riproduzioni meccaniche o dell’arte moderna.

Questi sono solo degli esempi che ci devono far riflettere sulla possibilità di operare un restauro corretto, critico ed obbiettivo. Ma si può parlare di “obbiettività” in questo campo? E’ possibile intervenire nel rispetto più assoluto dell’originalità matterica e figurativa dell’opera d’arte, senza essere condizionati da particolari ideologie o dalla “moda” del momento?

Queste problematiche si fanno particolarmente vive in una fase operativa fondamentale nel restauro conservativo: la pulitura. Già nell’Ottocento Secco Suardo nel suo “Manuale del restauratore dei dipinti” affermava che l’intervento di pulitura è “da considerarsi tra le più importanti fasi del restauro perchè dal modo come questa operazione viene effettuata può dipendere la conservazione o il deterioramento dei dipinti”. (1) Questa affermazione trova ancora oggi il suo fondamento. Si tratta infatti di un’operazione che, contrariamente ai principi della Carta del Restauro, è irreversibile e definitiva in quanto non può essere restituito all’opera ciò che le viene tolto, senza creare un falso storico e artistico. Inoltre è senza dubbio la più vincolata all’arbitrio e all’esperienza del restauratore, il quale, sebbene coadiuvato dall’apporto scientifico, al momento di decidere, ad esempio, il giusto grado e livello di una pulitura, è pur sempre costretto a ricorrere ad una interpretazione soggettiva.

Le difficoltà di questo intervento risultano ulteriormente accresciute se si tiene conto del fatto che, essendo l’opera d’arte unica e irripetibile, ogni restauro si presenta come un caso a parte e non esistono “ricette”, metodologie o criteri generali da adottare, ma solo principi estetici, storici e morali, soggetti a loro volta ad essere invalidati di fronte alle molteplici problematiche che possono sorgere in fase operativa. Come assicurare, ad esempio, la rimozione dello sporco senza intaccare la “patina”? Come ottenere il giusto livello di pulitura nel caso di un degrado disomogeneo tra i diversi colori? In che modo stabilire la legittimità o meno della rimozione o della conservazione delle ridipinture e dei rifacimenti? Sono queste alcune tra le principali problematiche da affrontare. Qui allora entra in gioco l’esperienza, la sensibilità e la moralità degli addetti all’intervento: il restauratore, lo storico dell’arte, il chimico.

Tuttavia ancora oggi la collaborazione fra queste tre figure risulta talvolta problematica, a causa di una non sempre chiara suddivisione dei ruoli, ma, soprattutto, a causa di una inadeguata formazione professionale. E’ ben noto purtroppo come, ancora oggi, non esista la figura professionale del restauratore, dalla cui sensibilità dipendono strettamente gli esiti dell’intervento di pulitura, mentre chiunque abbia una pratica artigianale può accedere al mestiere, anche senza una adeguata formazione storico, artistica e scientifica. D’altro canto, nella grande maggioranza delle università italiane non vengono fornite agli studenti di storia dell’arte sufficienti nozioni non solo di restauro, ma anche di tecniche artistiche e solo recentemente sono stati istituiti corsi sulla conservazione dei beni culturali. Infine, sebbene il restauro sia ormai costantemente affiancato e coadiuvato da un valido supporto scientifico che collabora alla ricerca delle tecniche e dei materiali compatibili all’opera d’arte, è anche vero che non sempre le analisi e le indagini diagnostiche sono in grado di fornirci soluzioni definitive ed esaurienti: l’opera d’arte subisce nel tempo modificazioni chimiche e fisiche non sempre chiaramente individuabili e che possono essere interpretate solo da chi abbia una esperienza ed una pratica continua sulla materia. Un corretto intervento di restauro deve quindi essere condotto attraverso la stretta collaborazione del restauratore, del chimico e dello storico dell’arte, ognuno con il proprio ruolo e senza ordini gerarchici, dato che ciascuno di loro ha competenze diverse ed è insostituibile.

Nessun’ altra operazione più della pulitura è soggetta agli atteggiamenti culturali ed alle mode del momento. I preconcetti legati alla tradizione, per esempio, nel passato hanno spesso portato alle drastiche puliture di dipinti tre-quattrocenteschi nei quali, a differenza di quelli seicenteschi, si ricercava ad ogni costo il cromatismo intenso e cangiante riconosciuto come proprio dei pittori primitivi; per lo stesso motivo, si è criticato a lungo il recente restauro degli affreschi di Michelangelo, in quanto il colore, che è meravigliosamente apparso al di sotto dello strato di sporco che ricopriva le pitture, non coincide con l’idea che ci si era creati del modo di dipingere dell’artista.

Un altro esempio di come determinati atteggiamenti culturali possano influire sui risultati di un restauro è costituito dalla serie di “drastiche” puliture condotte su alcuni dipinti della National Gallery di Londra nell’immediato dopoguerra e che suscitarono, già allora, tante polemiche. Quelle opere, private, seppur con il benestare di un rigoroso supporto scientifico, delle loro antiche vernici e della “patina” che li caratterizzava, con i loro colori accesi, ma appiattiti rispecchiano ormai l’attuale modo di “vedere” le immagini che si è andato uniformando alla diffusione delle riproduzioni a stampa e dei mass media.(2) Del resto ancora oggi i musei americani praticano spesso puliture radicali nel tentativo di adattare il quadro alle esigenze di una brillante presentazione visiva.

A prescindere da ciò, è importante sottolineare che la pulitura è un’operazione importantissima e necessaria nel contesto di un restauro, senza la quale l’operatore non può pensare di intraprendere nessun altro intervento sull’opera d’arte. Soprattutto negli ultimi anni, invece, si sta consolidando l’opinione che si tratti di una fase del restauro limitata al recupero estetico del manufatto e quindi superflua nel contesto dell’intervento conservativo.

Opinione, questa, diffusasi probabilmente in seguito ai numerosi scempi che in passato, ma ancora oggi, sono stati fatti su alcuni capolavori. In realtà la pulitura svolge una funzione fondamentale anche in previsione della conservazione dell’opera d’arte. Il disconoscimento di questo suo ruolo primario ha portato spesso all’affermarsi di una mentalità secondo la quale la pulitura diventa un elemento accessorio del restauro, un “macchiare”, per dare all’opera le migliori condizioni di presentazione visiva; in realtà, così come il medico non richiude una ferita senza averla prima pulita e disinfettata, non possiamo pensare di consolidare una pittura senza aver precedentemente eliminato le cause del suo degrado.

La pulitura di un’opera d’arte consiste quindi nel rimuovere lo sporco e le cause di degrado che possono precluderne la conservazione o alterarne la lettura e la godibilità. Naturalmente si può operare solo quando la materia da asportare è estranea alla natura originale dell’opera e determina un cambiamento della lettura stilistica e dei valori cromatici che l’artista ha voluto rappresentare. In base a queste esigenze deve essere valutata anche l’eliminazione o la conservazione delle aggiunte e delle sovrammissioni che non possono essere fatte risalire all’autore dell’opera, ma che determinano l’istanza storica della medesima. E’ inoltre opportuno che la pulitura non sia mai “drastica” ossia non corra il rischio di intaccare la cosiddetta “patina”, o per usare le parole del Longhi, la “pelle” dell’opera. Per patina si intende quella leggera alterazione dei materiali costituenti il manufatto che indica l’azione del passaggio del tempo. In questo caso non si può parlare di sporco, ma di una vera e propria modificazione o assestamento della materia, che ne determina il tempo-vita. Asportare la patina significa distruggere il valore documentario dell’opera, ma anche falsificarne la percezione visiva. Gli artisti del resto, erano ben consapevoli di questo invecchiamento

naturale, che armonizzava i colori abbassandone il tono, e talvolta lo riproducevano artificialmente attraverso le cosiddette “patinature”.

Nell’operazione di pulitura è estremamente importante anche la scelta dei prodotti e dei materiali da utilizzarsi. A questo proposito, un corretto intervento di restauro comporta sempre una fase preliminare in cui, attraverso una serie di analisi condotte sia mediante l’osservazione a distanza ravvicinata, che attraverso specifiche indagini scientifiche, si forniscono informazioni circa la tecnica esecutiva dell’opera, il suo stato di conservazione e la natura dei materiali che la compongono. In questo caso il chimico, il fisico e il biologo sono chiamati a svolgere un ruolo di primaria importanza e mi preme sottolineare la portata del loro contributo nella risoluzione di tanti problemi sulla conservazione delle opere d’arte.

L’obbiettività dei dati di laboratorio, analizzati alla luce delle conoscenze acquisite direttamente sull’opera, è in grado molto spesso di fornire al restauratore un quadro veritiero e più preciso della situazione conservativa del manufatto. La conoscenza approfondita della materia ci aiuta, quindi, nella scelta dei materiali da adottare nel restauro: in generale si deve tener conto della loro compatibilità con la pittura originale e, naturalmente, della loro reversibilità, ossia della possibilità di essere facilmente rimossi dall’opera; inoltre se ne devono prevedere le possibili modificazioni nel tempo. Per la pulitura si dovranno quindi prediligere prodotti volatili i quali, pur penetrando nella struttura del dipinto, non ne intacchino la materia originale dando luogo a processi di disgregazione. Devono quindi rispondere ai requisiti di assoluta inerzia con il substrato, alta efficacia reattiva con i materiali da rimuovere, elevata capacità di volatizzarsi e, di conseguenza, possibilità di eliminazione totale.

Nel campo specifico del restauro delle pitture murali, si fa generalmente uso del carbonato di ammonio, un prodotto ampiamente sperimentato e messo a punto metodologicamente a Firenze dopo l’alluvione del 1966. Costituito chimicamente da una base di media forza e da un acido debole, questo sale, solubilizzato in acqua, ha un potere leggermente alcalino, sufficiente a reagire con i prodotti organici che costituiscono lo strato di materiale da rimuovere, ossia lo ‘sporco”. Esso provoca, infatti, un ammorbidimento ed un rigonfiamento di queste sostanze, che ne consentono la differenziazione rispetto alla superficie dipinta. Il carbonato di ammonio ha inoltre il pregio di essere facilmente decomponibile in elementi gassosi e quindi volatili. In questo modo si evita il pericolo di una sua permanenza all’interno della materia pittorica in residui attivi, possibili fautori di reazioni dannose e non controllabili nel tempo. La sua applicazione quale solvente, durante la pulitura, si esegue per impacco con pasta di legno, silice micronizzata, o altre sostanze capaci di un grosso assorbimento idrico e, allo stesso tempo, non solubili. Esse hanno la funzione di supporto e di diffusione di acqua satura di carbonato di ammonio, in modo che la sua azione possa esercitarsi omogeneamente su tutto lo strato di sporco. Dopo aver lasciato agire l’impacco per un periodo di tempo da stabilirsi durante preventive prove di pulitura e in base al tipo e alla consistenza del materiale da rimuovere, lo sporco, ormai rigonfiato e differenziato dal colore originale, viene asportato mediante una semplice azione meccanica eseguita con dell’ovatta imbevuta di acqua distillata.

Una proprietà importante del carbonato di ammonio è anche quella disifettante con idrossido di bario sono nate come metodologie di “emergenza” in seguito alla disastrosa alluvione del ’66. Quel doloroso frangente tuttavia costituì la prima occasione in cui le più qualificate competenze del settore unirono le loro capacità nel tentativo di “salvare il salvabile”; gli ottimi risultati ottenuti da trent’anni a questa parte confermano quindi quei principi che abbiamo esposto precedentemente, ossia la necessità di una continua collaborazione e interscambio tra restauratore, chimico e storico dell’arte al fine di individuare le metodologie più appropriate per un intervento corretto e il più possibile obbiettivo.

* Guido BOTTICELLI, Professore e restauratore, e

** Silvia BOTTICELLI, restauratrice

Note

(1) G. SECCO SUARDO, Manuale del restauratore dei dipinti, Milano, 1866, cap.I, p.317.

(2) Cf. A. CONTI, Sul restauro, Milano, 1988