paolo veronese

Il Veronese secondo Romanelli e Strinati: miti., ritratti e allegorie

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Compito arduo quello dei due curatori della mostra veneziana dedicata al Veronese, aperta al Museo Correr dal 13 febbraio al 29 maggio. Quello di dirottare l’attenzione del pubblico che ha nella testa e negli occhi il Veronese come il pittore-narratore di masse di personaggi e persone, masse benissimo vestite, ingioiellate, consci di se stesse cioè di essere la crema e il puntello della Serenissima e della società veneziana della seconda metà del Cinquecento. Il Veronese delle monumentali Cene, dei Conviti splendidamente colorati e disegnati, dei trionfi di Venezia, dei ringraziamenti per la vittoria di Lepanto, delle presentazioni alla Madonna, dell’incontro fra Salomone e la regina di Saba, delle adorazioni dei Magi. Dirottare l’attenzione ai Miti, ritratti, allegorie che è poi il titolo della mostra dedicata ad un Veronese in prevalenza profano. Se Paolo fosse vissuto ai tempi nostri avrebbe fatto il regista di film colossali, avrebbe fatto concorrenza con successo al grande Cecil De Mille (I dieci comandamenti).
Veronese, La giustizia, affresco strappato da villa Soranza (Sacrestia del Duomo) 1551 Veronese, La giustizia, affresco strappato da villa Soranza (Sacrestia del Duomo) 1551
Veronese, La giustizia, affresco strappato da villa Soranza (Sacrestia del Duomo) 1551
Si tratta insomma di passare dallo schermo gigante del Cinemascope allo schermo televisivo. Bisogna abituarsi. Ma Venezia presenta un immenso serbatoio di opere del Veronese ed ecco che la mostra ha il naturale prolungamento nel Circuito Veronese che è stato organizzato (a destra il link con il circuito). Ed anche, nel retroterra, con la mostra a Vicenza, Palazzo Barbaran da Porto, su Andrea Palladio e la villa veneta (4 marzo-3 luglio) e il relativo itinerario fra le ville.
Paolo Caliari, detto il Veronese, Ratto d Ratto d Veronese, Venezia con Ercole e Nettuno Veronese, Apollo e Dafne
Per questo salto dal Cinemascope al video, i curatori Giandomenico Romanelli, direttore dei Musei civici di Venezia, e Claudio Strinati, soprintendente del polo museale di Roma, hanno scelto 29 dipinti e due disegni, di medie dimensioni con alcune grandi eccezioni: il capolavoro Il ratto d’Europa (240 per 307 centimetri), Susanna e i Vecchioni (175 per 320) e Giuditta e Oloferne (195 per 176), Ritratto di Iseppo da Porto con il figlio Adriano (207 per 137).
La mostra (catalogo Skira) arriva da Parigi, dal Musée du Luxembourg, il museo del Senato francese, dove è stata fino al 30 gennaio perché è una iniziativa in comune con i Musei civici veneziani e prodotta con Venezia Musei. La spazio è la reggia neoclassica del Correr e tre nuove sale che dopo la mostra saranno restaurate. Con la mostra parigina ha in comune la grande maggioranza dei dipinti. La mancanza più sentita è forse il bellissimo Ritratto di gentildonna (detto La Bella Nani), per di più misterioso, considerato dalla critica come “uno dei più alti vertici della ritrattistica” del Veronese “per la preziosa luminosità del colore”. Ma il ritratto è al Louvre e quindi la mostra parigina giocava in casa. D’altra parte i musei hanno assai poco sviluppato il senso di riconoscenza anche storica come avrebbe dovuto avere il Louvre nei confronti di una mostra del Veronese a Venezia, città dalla quale sono arrivati al museo dipinti del Veronese staccati (rubati) da mani francesi dai soffitti delle sale più simboliche di Palazzo Ducale o rubati dai conventi (Le nozze di Cana, ndr.). Ma non guardiamo tanto per il sottile. Veronese torna in mostra a Venezia, se non andiamo errati, dall’esposizione storica del 1939 e allora godiamoci i 18 fra dipinti e disegni che sono arrivati dall’Europa e dagli Stati Uniti (cioè la maggioranza delle opere esposte) e che tornano in Italia da quel tempo immemorabile o da decenni. Con alcune eccezioni come lo spontaneo Ritratto di un gentiluomo in pelliccia di lince del Museo di Belle Arti di Budapest (che ha appena finito la mostra torinese a Palazzo Bricherasio) e i tre dipinti “bislunghi di Paolo” (alti 25 centimetri e lunghi 108) con episodi mitologici, dal Museo di Belle Arti di Boston, che fino al luglio scorso sono stati a Genova, Palazzo Ducale, nella grande mostra sull’età di Rubens.
Paolo Caliari, detto il Veronese, Agostino Barbarigo Paolo Caliari, detto il Veronese, Alessandro Contarini Paolo Caliari, detto il Veronese, La Costanza Paolo Caliari, detto il Veronese
Ma come ha fatto Paolo Veronese (1528-1588) a diventare con Tiziano e Tintoretto il pittore simbolo del periodo più glorioso di Venezia? Forse il più grande narratore del mito di Venezia in senso politico, diplomatico, militare, di governo della cosa pubblica e di gusto della vita, dei suoi simboli e personaggi, certo nell’esercizio di un potere esclusivo e riservato. Continuando un paragone moderno è come se un pugile avesse sfondato nella categoria dei pesi massimi avendo davanti Rocky Marciano e Cassius Clay. Tiziano, il “pittore imperiale europeo” (38 o 48 anni in più rispetto al Veronese, a seconda dell’anno di nascita del maestro di Pieve di Cadore). Jacopo Tintoretto, il figlio del tintore e il figlio dello spaccapietre veronese (11 anni in più e più longevo di sei anni), intenso, drammatico, dominatore della luce e dei guizzi di ombre e anche lui delle scene grandiose e spettacolari.
Veronese, Apollo e Dafne Veronese, Apollo e Dafne Veronese, Venere e Mercurio presentano a Giove
Già a vent’anni Veronese si conquistò fama e ottime introduzioni, l’amicizia del grande architetto Michele Sanmicheli, a Verona, a Castelfranco, a Mantova. Ma per l’introduzione alle decisive commissioni pubbliche veneziane, nel 1553 ebbe la fortuna di essere scelto da un mediocre pittore, il Ponchino (tornato però allora da Roma e quindi il più aggiornato sull’onda manierista, michelangiolesca), per decorare i soffitti delle sale di Palazzo Ducale riservate ai Dieci. La qualità dei dipinti del Veronese rispetto a quella dei colleghi fu il suo miglior biglietto da visita ed era una rivoluzione. Il suo nuovo cromatismo, come osservava Rodolfo Pallucchini, “a stacchi netti, di timbro chiarissimo” era una novità per Venezia “ancora così legata al tonalismo avviluppante e sonoro della corrente Giorgione-Tiziano”. Virtuoso del colore e della luce, ma che non ha bisogno del chiaroscuro. Originale nella composizione e padrone della complessità delle scene. Arditissimo negli scorci da sotto in su come prolungamento naturale dell’occhio dell’osservatore che guarda un soffitto. Sontuoso più che lussuoso. Potente e raffinato nello scenario architettonico sul quale o entro il quale colloca dogi e santi, patrizi e dame, anche dame che si stuzzicano i denti, vincitori di Lepanto, nani, buffoni, “briachi e thodeschi” e il resto del “grande teatro” che emana però significati, simboli, messaggi. Per Romanelli “gli stessi martirii paiono più rappresentazioni di un sacrificio che il sacrificio stesso”. Una dimostrazione dell’ “estrema libertà con cui tratta soggetti sia religiosi che profani” in nome di quella battuta davanti ai giudici dell’Inquisizione che non capivano il “gran teatro” dell’ Ultima Cena e che forse gli evitò guai seri: “Nui pittori si pigliamo licentia, che si pigliano i poeti et i matti”.
Veronese, Marte trattenuto dalla Pace e dall Veronese, Marte che spoglia Venere Veronese, Marte che spoglia Venere Veronese, Marte che spoglia Venere
I critici onesti ammettono che è imbarazzante seguire o meglio non poter seguire fino in fondo la fantasia dei vari cicli pittorici del Veronese in fatto di “forme, colori, decori, tagli compositivi, luci, personaggi, stoffe e vesti, animali, situazioni”. Neppure nei dipinti con il massimo grado di ufficialità, come a Palazzo Ducale, il Veronese gioca sul sicuro, adotta il tono generale di quello che è stato già dipinto. Romanelli nota “l’incredibile galleggiare di corpi ignudi in un’atmosfera cristallina e senza tempo”, ” in un moto circolare e danzante”, ” anatomie forzate e sublimi, incise con l’efficacia di una xilografia nordica. Dinamismo e policromia si integrano e si contrappongono, poi, alle possenti figure decorative a monocromo stagliando tra cornici dorate e fondi verdastri un contrasto drammatico ed emotivamente spinto al limite del parossismo”.
Paolo Caliari, detto il Veronese, Atlanta e Meleargo Paolo Caliari, detto il Veronese, Marte trattenuto dalla pace Paolo Caliari, detto il Veronese, Giove e Io
Anche il Veronese “profano”, cioè quello della mostra, “trasforma tutto “in splendente favola figurata”. Fra le opere presentate per testimoniare la sua formazione qualche anticipazione degli scorci audaci (da sotto in su) che poi strabilieranno a Palazzo Ducale. La Giustizia, affresco staccato, di villa Soranzo a Treville, nei pressi di Castelfranco Veneto, opera del Sanmicheli del 1551 e demolita nel 1818. Le arti liberali e l’ Allegoria della Pace che con un manto di azzurro sfavillante sopra la veste rosata, sta “arrostendo” con una fiaccola una vuota armatura. Tutto intorno templi invasi da piante a simbolo dei danni della guerra. Marte trattenuto dalla Pace e dall’ Amore con sfondo azzurro e ombre nere.
Marte che spoglia Venere Paolo Caliari, detto il Veronese, Atteone e Diana con ninfe
Veronese è stato definito come colui che rappresentò “le sembianze” del suo tempo, “lontano da rovelli intellettualistici e tormenti spirituali, preoccupato solo della ‘forma’”. Per esempio che il Gentiluomo in pelliccia di lince, dipinto con nero e bianco argenteo in contrasto con i colori pastello delle rovine antiche dello sfondo, “linearismo di disegno e leggerezza di pennello”, ci restituisce “l’immagine limpida di un giovane uomo ‘vivo’ che non si sforza di dirci nulla”, “che non cerca di proiettare in noi la sua interiorità”. Anche nel Ritratto di Francesco Franceschini arrivato dalla Florida, da Sarasota, il personaggio ha un bordo in pelliccia di lince (simbolo di acutezza), spada, alte braghe rosse, ma si fa accompagnare non da un cane scenografico, ma dal cagnetto preferito. Ugualmente il pittore ha preferito un atteggiamento familiare nel ritratto a piena figura di Iseppo da Porto che stringe a sé il figlio Adriano quasi appeso al braccio. Il Ritratto dell’orafo Hans Jakob König dimostra che il Veronese trovava il tempo per dipingere anche gli artigiani sia pure particolari. La pulitura degli anni Sessanta ha liberato la firma del pittore e le indagini scientifiche hanno rivelato pentimenti. Ad Agostino Barbarigo è dedicato il ritratto più rappresentativo della mostra: uno degli eroi veneziani di Lepanto ucciso da una freccia che tiene in mano. Barbarigo ha una bella barba, ma non invasiva, indossa una armatura nera, lustra, dai bordi dorati e chiodati, con figure terrorizzanti contro i nemici sui fianchi. Sullo sfondo un tendone di velluto rosso che Veronese non fa quasi più importante dell’effigiato.
Veronese, ritratto di gentiluomo seduto 1570 Veronese, ritratto di gentiluomo seduto 1570 Veronese, Susanna e i vecchioni, 1570 Veronese, Susanna e i vecchioni 1570
I tre dipinti “bislunghi” provenienti da Boston sono una prova dell’abilità del Veronese a concentrare, non a stipare, personaggi, costruzioni, vegetazione, sfondi anche in uno spazio ridotto. Due rappresentano Meleagro che dona la testa del cinghiale calidonio ad Atalanta (in colori squillanti, rosso, ocra, azzurro) e il pastore Atteone che spia Diana e le ninfe al bagno (sarà trasformato in cervo e sbranato dai suoi cani). I tre dipinti, insieme a 14 delle stesse dimensioni, vengono indicati come “spalliere”, ma potrebbero essere la decorazione di una alcova dati certi soggetti erotici o di uno studiolo dati altri soggetti di Muse e Virtù.
Veronese, ritratto di Alessandro Contarini, 1565-70 Veronese, ritratto di Alessandro Contarini, 1565-70
Una curiosità sul terzo dipinto “bislungo”. Nella scena ripresa in un cortile aperto, con fontana, colonne, loggiato, e intitolata in mostra Venere e Giove, la dea siede nuda sulle ginocchia del padre degli dei, come una qualsiasi segretaria. A Genova, Piero Boccardo, seguendo gli inventari seicenteschi, ha preferito identificarla come Io, sacerdotessa di Giunone, di cui Giove si era invaghito, in base alla considerazione che fra le numerose scappatelle del padre degli dei non si narra di una relazione incestuosa con la figlia Venere.
Veronese, Giove e Io, 1562-1565 Veronese, Giove e Io, 1562-1565
Da Venezia, da Palazzo Ducale, è arrivato in mostra un solo dipinto, forse troppo poco, anche se si tratta di un capolavoro che è anche la copertina della mostra: il celebre Ratto d’Europa (tanto celebre che Napoleone l’aveva fatto trasportare a Parigi nel 1797 e lì fu sottoposto a interventi e ridipinture che non sono stati una cura ricostituente). Ma è rimasto “un pezzo magistrale per la scenografia complessa”, una scena da arcadia rinascimentale. Il soggetto di grande successo (Europa seduta sul toro-Giove che non sa trattenersi e lecca un piede alla fanciulla di cui si è invaghito, un’altra), fu ripetuto molte volte dal Veronese con l’aiuto più o meno esteso della bottega. Non è una scena, ma una sequenza su due piani. La parte luminosa di quello che sembra un gioco e finirà con un rapimento, di Europa discinta nella fretta di farsi bella e delle ancelle che si agitano. La luce Veronese la estrae dalle gonne azzurre, ocra, gialle di Europa e delle ancelle che l’aiutano ad agghindarsi; dai bianchi delle camice, dei petti e delle spalle delle fanciulle; dai gioielli e dal rosso delle corone di fiori che gli amorini in volo fanno scendere. Poi la luce si attenua ed Europa col manto damascato al vento, scende in groppa al toro nelle acque del mare, fra gli alberi e le fronde scure e le ancelle ignare che la salutano. La scena è sfondata all’orizzonte, da squarci di azzurro fra nuvole.
Altra luce, sempre straordinaria, quella della Lucrezia, la patrizia romana che sentendosi disonorata da un parente di Tarquinio il Superbo, si suicidò. La luce è quella di un volto diafano, occhi arrossati, del petto aperto al pugnale, dei gioielli ormai inutili. La bionda Lucrezia emerge fra pesanti drappi damascati, una coltre verde cupo. Per necessità impugna il pugnale in mezzo alle dita. Ha preso la decisione, ma non vuole vedere la lama che avanza nel petto e che già raccoglie un rivolo di sangue. E allora la copre con una sciarpa di seta dai riflessi dorati che è un capolavoro a parte. C’è da dire che al Veronese faceva comodo Lucrezia in questa posizione, ma quello che si trafigge è la parte destra del petto, il cuore è dall’altra parte.
Paolo Caliari, detto il Veronese, Giuditta e Oloferne Veronese, ritratto di Agostino Barbarigo
Giuditta ed Oloferne è l’altra scena forte della mostra trasformata dal Veronese in un altro capolavoro di colori e di atmosfera. La mano destra di Giuditta galleggia nell’aria nera e tiene per i capelli la testa mozzata. La donna non ha alcuna titubanza, neppure di pelle, concentrata come è sulle cose da fare, e con la sinistra dalle dita sporche di sangue tiene ferma la testa. In primo piano la serva è pronta con una borsa nera. Siccome la luce era più favorevole alla serva sono la sua pelle marrone scuro e la veste cremisi a stimolare maggiormente il pittore che le rende più curate, col tessuto che luccica.
Paolo Caliari, detto il Veronese, Apollo e Dafne Veronese, Venezia trionfante
Dalla California, dal Museo d’arte di San Diego, è arrivato Apollo e Dafne che viene attribuito al maestro solo da Suida, Berenson come lavoro giovanile e la Verteva e per il quale si attendono lumi dalla mostra. Il colpo d’occhio generale è affascinante: come un bagno di luce dorata in cui sono cresciuti due alberi scuri e arbusti. Al centro Apollo ha raggiunto Dafne, ma non può far altro che assistere alla trasformazione dell’agognata in arbusto. Già le braccia, i capelli sono pieni di fronde. E il dio non capirà mai.
Ma Veronese non è artista da drammi umani, religiosi o da Olimpo. Piuttosto ci sembra che tutto preso dalla composizione, dagli scorci, dalla cromia, eccetera, eccetera, dia l’impressione di curarsi poco dei volti (non nei ritratti naturalmente). Europa, Lucrezia, Giuditta, Dafne sembrano abbastanza simili. E davvero, per chiudere col sorriso, un dipinto di 100 per 134 centimetri tutto occupato da un amorino e due cagnoni dal pelo maculato.
Paolo Caliari, detto il Veronese, Lucrezia Veronese

Notizie utili

Veronese. Miti, ritratti, allegorie. Dal 13 febbraio al 29 maggio. Venezia. Museo Correr, reggia neoclassica. Piazza San Marco. A cura di Giandomenico Romanelli e Claudio Strinati. Catalogo Skira. Organizzata da Musei civici veneziani e Musée du Luxembourg. Prodotta con Venezia Musei.
Orario: tutti i giorni 10-19 (la biglietteria chiude un’ora prima).
Biglietti: intero 9 euro, ridotto 6,50, ridotto speciale 3 (possessori biglietti dei Musei di Piazza San Marco, Museum Pass Musei Civici Veneziani e “Circuito Veronese”). Biglietto cumulativo mostra e “Circuito Veronese” (col nucleo principale dei dipinti del pittore a Venezia e cioè Palazzo Ducale, la Sala d’Oro della Biblioteca Marciana e la chiesa di San Sebastiano) intero 12 euro, ridotto 7. Informazioni call center 041-5209070;
[email protected]
Prenotazioni per biglietti e visite guidate: on line dal sito
www.museiciviciveneziani.it
(pagamento con carta di credito fino a 24 ore prima dell’appuntamento); call center 041- 5209070 (pagamento con carta di credito fino a 24 ore prima dell’appuntamento; pagamento con bonifico bancario fino a 5 giorni lavorativi prima dell’appuntamento); in biglietteria della mostra anche il giorno della visita, compatibilmente con i posti disponibili. Visite esclusive fuori orario solo su prenotazione.
Visite guidate a cura dell’Associazione guide turistiche di Venezia, anche in lingua straniera: dal 19 febbraio disponibile con partenza fissa sabato e domenica ore 14 (massimo 25 persone). Possibili itinerari integrati in città. Info 041-5209038;
[email protected].
Dal 1° marzo servizio volontario, gratuito a cura dell’Associazione amici dei musei e monumenti veneziani, solo dal martedì al venerdì feriali con partenza ore 15 (massimo 30 persone a visita). Il servizio è sospeso durante le vacanze pasquali . È possibile prenotare.